Peter Green (1946-2020) Ritratto Di Dama In Nero
Esistono canzoni famose delle quali nel corso del tempo si è persa o dimenticata la paternità. Nel momento di massimo successo dei Guns N’ Roses se avessimo chiesto a un fan di citare una delle loro canzoni migliori non avrebbero esitato a nominare Knockin’ On Heaven’s Door ignorando che si tratta di un famosissimo brano di Bob Dylan. Persino se la si cerca su Google viene fuori prima quella dei GNR che quella del menestrello di Duluth. Lo stesso vale per Moondance che molti pensano e credono di Michael Bublè quando i rockettari di lunga data ben sanno che è farina del sacco del grande Van Morrison. In una certa parte, anche se in modo non così eclatante, è accaduto anche a Black Magic Woman portata alla notorietà mondiale dai Santana in una splendida e vibrante versione sull’album “Abraxas” del 1970, ma in realtà scritta da Peter Green nel 1968.
Peter Green (1946-2020), chitarrista inglese extraordinaire e fuori dagli schemi, che ha lasciato questo mondo poche settimane fa andandosene nel sonno con la tranquillità che forse mai aveva avuto nella vita, ha solo vent’anni quando, gravitando nel magnifico movimento inglese del British Blues, viene chiamato da John Mayall a sostituire Eric Clapton nei Bluesbrakers, fuoriuscito per formare i Cream. Con Mayall, nel 1966, Green incide “A Hard Road” dove mette in mostra tutto il suo talento di chitarrista blues, ma se il blues sarà il cavallo sul quale cavalcherà prevalentemente per tutta la sua carriera, Green si concederà volentieri qualche piccolo trotto nel pop e qualche galoppata psichedelica. Come già aveva fatto Clapton anche Green abbandona Mayall dopo quell’unico e ottimo disco per formare un gruppo tutto suo e nel 1967 nascono i Fleetwood Mac, anche se bisogna aspettare il 1968 per ascoltare Black Magic Woman sull’album, “English Rose”, brano originariamente uscito precedentemente solo come singolo. Con i FM, Peter Green pubblicherà cinque album in poco più di un anno tra cui, degno di nota, “Blues Jam At Chess” registrato a Chicago negli studi della Chess Records dove Green e la sua band, confermando l’inclinazione prettamente british blues, incontrano e si confrontano con alcuni dei padri assoluti del blues americano. Ma è proprio in quel periodo che Peter Green comincia dare segni di squilibrio mentale a causa delle droghe psichedeliche delle quali abusa senza ritegno. L’avventura con Mick Fleetwood e soci viene quindi troncata e mentre questi ultimi abbandonano, oltre il chitarrista, il blues che li aveva contraddistinti per abbracciare la causa di un pop leggero e raffinato che aprirà le porte di un futuro eclatante successo commerciale e mondiale, Green, nel 1970, si chiuderà in uno studio di registrazione per un’intera notte lisergica e psicotica con un quartetto di altri validi strumentisti, per improvvisare una jam e partorire in presa diretta (della serie: buona la prima!) il suo capolavoro psichedelico “The End Of The Game” album esclusivamente strumentale (Green era anche cantante) e senza la minima traccia dell’esperienze Mayall e Fleetwood Mac che dimostrerà lo straordinario talento chitarristico e la psicoticità che avvolgeva la sua mente fino a condurlo a ricoveri e cure psichiatriche per diversi anni. Dopo qualche altro disco solista che non ripeterà la stravaganza e il culto psico-acido di quel primo album, Green si dedicherà a sparute collaborazioni e produzioni di altri artisti, fino a formare a fine anni ’90 gli Splinter Group, band che a cavallo del millennio, pubblicherà ben otto album di buon blues, ma che non lasceranno il segno sperato, per poi appendere, nel 2003, definitivamente la chitarra al chiodo fino alla morte sopraggiunta nel sonno la notte del 25 Luglio 2020.
Se la splendida e intraprendente versione Santaniana di Black Magic Woman inserita nell’album “Abraxas” del 1970, dilatata a quasi sei minuti di durata e che il chitarrista messicano fa diventare sua prendendosi delle magnifiche libertà di arrangiamento e stravolgimento, è veemente, con una chitarra spigolosa e fuzzata che confluisce in un furioso medley con la Gypsy Queen del virtuoso chitarrista ungherese Gabor Szabo tra richiami folk, latini e vagamente jazz con un risultato ammirevole che ha reso famosa la canzone nel mondo, quella originale del maestro Peter Green passata molto meno osservata all’epoca della sua uscita, è più tranquilla e pacata, ma gronda blues come il sudore dai pori, in tutto il breve brano (2: 51) e soprattutto nella coda finale in un tipico andamento british blues di stampo quasi Claptoniano. Una piccola chiosa conclusiva per segnalare ai fan del chitarrista e cantante inglese che l’ultimo album dei Fleetwood Mac con Green alla chitarra “The Play On” (1969) verrà ristampato il 18 Settembre prossimo (BMG -2020) in edizione deluxe sia in CD che in doppio vinile con, oltre la track-list originale rimasterizzata al meglio, diverse bonus-tracks, un libro di sedici pagine, introduzioni e prefazioni di Mick Fleetwood e Anthony Bozza, biografo ufficiale della band, e numerose fotografie inedite.
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