Federico Albanese THE BLUE HOUR
Federico Albanese approda alla prestigiosa etichetta della Berlin Classics (la Neue Meister essendone una costola) per questo suo secondo Lp che fa seguito a "The Houseboat and the Moon" del 2014, album che ricevette unanimi consensi di critica. Italiano (milanese di nascita) ormai di stanza a Berlino, Federico non è esattamente una figura nuovissima nel panorama musicale: lo ritroviamo in una collaborazione con Jessica Einaudi, e senz'altro l'estetica sonora einaudiana è uno degli elementi di base che compongono la bella alchimia di questo "The Blue Hour", così come in altre esperienze di vario peso specifico ma tutte fondamentali, ovviamente, per promuovere una crescita artistica di livello.
L'opera, interamente strumentale, si muove agilmente tra territori ambient ed elettronica, ma è altresì imperniata sul lavoro pianistico di Albanese, vero epicentro di un album crepuscolare e romantico, segnatamente malinconico, a tratti quasi spettrale. Ma nonostante il diffuso senso d'oscurità che l'avvolge, non mancano momenti significativi di pura luce. Ed è forse nelle scarne note di copertina che possiamo scovarne il senso intimo, quando Federico sembra affidarlo alle parole di J. W. Goethe: "There is strong shadow/where there is much light".Così un brano come Migrants non necessita di alcuna lirica per manifestare la propria profonda dicotomia, che poi altro non è se non il sentimento bivalente che il Migrante assume su di sé, paura e speranza, incertezza e possibilità futura.
La componente emotiva, che lo stesso Federico dichiara in un'intervista essere il fulcro della sua musica, trova qui una forma intrigante e personale che va ben oltre ciò che comunemente si definisce "classica moderna" o "neoromanticismo", grazie anche alla scelta accurata e spesso minimale che fa splendere ogni singola nota, ogni timbro. L'ausilio del violoncello accresce l'aura d'uggia e di mestizia, così come le screziature mai invadenti di synth e "piccoli rumori" ne temperano la misura stilistica - scavalcando d'un balzo il pericolo, sempre presente, d'impantanarsi in misture esageratamente zuccherose o stucchevoli. Lo diciamo per rimarcarne il valore compositivo e allontanare qualsiasi riferimento che volesse accorparlo ad una new age di maniera.
Inutile citare ordinatamente l'elenco dei brani. Questo è un viaggio, un corpus unico che procede e si dissolve procedendo, rinnovandosi di continuo. E se il tema è il viaggio di colui che migra, giusto per contraddirci e citare, non poteva mancare un titolo emblematico: Cèline, che con il suo Viaggio (al termine della notte) ne fece l'archetipo letterario del primo Novecento. Un disco che merita ripetuti e attenti ascolti, forse ancora di più per quella sua capacità d'insinuarsi senza pretese assolute; come diceva Satie, la musica non dovrebbe richiedere il massimo dell'attenzione sempre e comunque da parte dell'ascoltatore: lasciamolo libero di scegliere.
Federico Albanese, compositore in questi anni affannosi e affannati, ha fatto sua questa premessa. Entra, si sistema un po' in disparte, si presenta con grazia e poi dispensa bellezza senza darne l'impressione.
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