Needlework NEEDLEWOK
"Il nostro fine è, se non farvi scuotere le teste, almeno battere il piede”. Questo scrivono di sé i Needlework, formazione bresciana giunta al terzo album con questo nuovo “NeedleWOK”. Effettivamente questo disco non ci fa scuotere la testa, così come poteva riuscire l’esordio di dodici anni fa con i suoi suoni di matrice punk-rock, sferzanti, sgraziati ed elettrizzanti. Oggi no, oggi le coordinate stilistiche della band si posizionano in terreni molto retrò, nel rockabilly anni ’50, arricchito da sprazzi di blues rock energico e qualche melodia pop. Il ritmo diventa la loro miglior caratteristica, mentre un tappeto di chitarre accompagna costantemente le linee vocali, creando uno stile compatto e solido. Nonostante la band sia capace di recuperare la freschezza e la spinta del rock and roll americano, che a tratti si avvicina inconfondibilmente a suoni surf, non riesce ad aggiungere una discreta dose di originalità ed elaborazione alle influenze. A tratti questi generi, già suonati allo sfinimento, incorrono nel pericolo di diventare piatti e tediosi, e questo era un rischio che il gruppo bresciano probabilmente aveva messo in conto e che in parte è riuscito a neutralizzare, grazie ad una perfezione sonora limpida e una scrittura compositiva lucidissima. Il gioco di parole Needlework-Needlewok ha un duplice significato: da un lato è un omaggio a tutte le serate nelle quali il nome della band è stato storpiato involontariamente nelle locandine da gestori di pub, bar o locali. Dall’altro, Wok è il tegame tondo multiuso nel quale la band ha simbolicamente mescolato e cotto le proprie influenze. In realtà, come già abbiamo scritto, ciò che al disco manca è la capacità di aggiungere del proprio agli influssi e rielaborare gli impulsi stilistici; così in “NeedleWOK” c’è il rockabilly che sembra sfiorare gli stili dei maestri Presley e Cash di Istanbul, Sally’s End e Trough You, e ci sono i pezzi devoti al blues come Cowbell e Outbreak, che però non abbandonano mai la matrice rock. Out Of Here, The Last One e Get Me Back sembrano voler concedere qualche secondo di calma, calando l’intensità ma non la delicatezza e la cura alle parti di chitarra, ma è una calma apparente, perché l’energia sonora rimane alta e Wedding Guest e Couples, con il loro vigore, ne sono la dimostrazione. Se, dunque, da un lato l’esperienza maturata in questi anni ha permesso ai quattro bresciani di creare un sound quadrato, ordinato, pulito e ben strutturato, dall’altro è evidente che l’originalità latente ne soffoca l’effervescenza. Il suono sembra costantemente un “già sentito”, che rischia di stancare presto, dopo pochi ascolti.
Commenti →