Stanley Kubrick Fear and Desire – Paura e Desiderio
"Fear and desire (Paura e desiderio) " è il primo, breve, lungometraggio (poco più di un’ora) di Stanley Kubrick, datato 1953. Questo film, di fatto invisibile per lungo tempo, o circolante in copie conservate in pessimo stato, torna oggi restaurato in digitale dalla Library of Congress di Washington, in una versione (DVD e BluRay) che restituisce alle immagini tutta la loro nitidezza. All’epoca Kubrick era un giovane fotografo, e le sue uniche incursioni nel cinema erano stati tre documentari (due dei quali, "Day of the fight" e "The seafarers" sono presenti come extra del DVD): una prova generale per la carriera che sarebbe venuta. Fear and desire è uno strano film, di fatto disconosciuto dal suo autore (che poco e malvolentieri ne parlava), definito da Kubrick stesso “un tentativo serio fatto in modo inetto”, ma già rivela in nuce alcune caratteristiche della filmografia maggiore (da "Rapina a mano armata" in poi) del maestro. Primo fra tutti l’ossessione per il controllo totale sul prodotto cinematografico; fin da questo mediometraggio, infatti, è il regista stesso ad occuparsi della maggior parte degli aspetti della produzione del film: sua, oltre alla regia, la fotografia, il montaggio e la produzione stessa (ma qui si dovrà imputare la cosa anche, ma non solo, alla povertà di mezzi).
E la fotografia è il primo aspetto che salta agli occhi (complice anche l’ottimo restauro): girato nella sua maggior parte en plein air il film colpisce per l’uso della macchina da presa, impegnata nella registrazione di primi piani che guardano ancora all’esperienza di fotografo del regista, illuminati da una luce intensa e cristallina (nello splendido contrasto luce-ombra dei raggi del sole filtrati dai rami degli alberi), valorizzati da un montaggio serrato che sostituisce e compensa la precarietà dei mezzi. Anche le scene in interno, illuminate in maniera quasi espressionista, giocano molto con i dettagli, usati a mo’ di raccordo diegetico tra le parti. Il film, nella sua ingenuità (quell’ingenuità che solo gli esordi dei grandi riescono ad avere), in un certo senso anticipa già quello che Kubrick sarebbe diventato, e non solo perché si tratta, in fondo, di un film di guerra (il genere maggiormente esplorato dal nostro) ma perché esplora alcuni temi che sarebbero tornati fino alle ultime prove del regista. Un gruppo di quattro soldati si trova in una località non identificata, dietro le linee nemiche, dopo che l’aereo che li trasportava è precipitato.
Decisi a ricongiungersi al loro plotone costruiscono una zattera con cui discendere il fiume che li separa dai loro compagni. Imbattutisi però in un avamposto nemico decidono di attaccarlo e di uccidere il generale che è al comando, ma al momento dell’incursione finale due di loro si accorgono che il generale e il suo vice hanno il loro stesso volto. Il film di guerra scivola lentamente nel delirio onirico, nella contorta psicologia d’un soggetto antimilitarista filtrato da un controcanto astratto e stilizzato (anche se non si può ben definire dove finisce l’ingenuità e dove inizia l’astrazione), che guarda (da lontano) a certe prove americane dei maestri dell’espressionismo tedesco. Il distacco dal reale è messo in chiaro fin dall’inizio; dice infatti la voce fuori-campo in apertura del film: “C’è la guerra in questa foresta. Non una guerra che è stata già combattuta, né una che lo sarà in futuro, ma una qualsiasi guerra. E i nemici che lottano qui tra loro non esistono a meno che noi non li facciamo esistere. Solo le forme sempre uguali della paura, del dubbio e della morte provengono dal nostro mondo. I soldati che vedete parlano la nostra lingua e sembrano nostri contemporanei, ma il loro solo paese è la mente”. La mente, il sogno, il doppio: nel 1953 Stanley Kubrick tentava già di rispondere ad una serie di quesiti che interesseranno tutta la sua carriera cinematografica.
Il viaggio dei soldati, dunque, staccatosi per assunto iniziale da una qualsiasi contingenza storica, diventa (forse tropo facilmente, ma non è certo un problema: lo ripetiamo, un esordio è sempre un esordio) prima di tutto una ricerca interiore (una tribolazione, non immune dalla follia), ricerca che termina davanti allo specchio (metaforico), in una figura che è problematica e archetipica al tempo stesso, e che proietta il film in una dimensione altra. Ma lo specchio è anche quello del cinema, strumento che riflette e che cerca lo sguardo riflesso dei personaggi; tantissimi sono, tra i tanti primi piani, gli sguardi in camera: cinema-specchio e cinema-allo-specchio, alla ricerca dei propri punti di fuga verso l’interno (la psiche del personaggio) e allo stesso tempo verso lo spettatore (esterno, ma presente e mediato dalla macchina da presa). L’interesse per il racconto psicologico ha dunque origini lontane, e già in questo piccolo film emerge l’ombra lunga di uno degli autori feticcio del regista, quell’Arthur Schnitzler il cui romanzo "Doppio Sogno" sarà alla base dell’ultimo capolavoro del regista, "Eyes Wide Shut". Viaggio della mente, sublimazione della realtà nel sogno (cosa che in fondo il cinema fa da sempre), il primo film e l’ultimo innescano il loro onirico cortocircuito: il cerchio è chiuso, perfettamente. Il serpente si morde la coda.
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