Will Hermes New York 1973-1977
"Cinque anni che hanno rivoluzionato la musica", come recita il sottotitolo. Will Hermes ce li racconta in una prospettiva davvero insolita e coinvolgente. Quella di un giovane adolescente che vive sulla propria pelle le esperienze sconvolgenti di quegli anni e che probabilmente -a chi non è accaduto- ritrovandosi a scoprire un mondo del tutto nuovo e affascinante, un sottobosco proiettato appena una manciata di anni più avanti rispetto alla sua età, lo idealizza e lo ambisce come aspirazione massima di libertà. Viene raccontata una New York allo sbando, dissestata e degradata, una città degli estremi, assediata da droga, delinquenza, ingiustizie sociali e inquinamento. In questo crogiolo di cose brutte c’è però vivo il fermento portato dalle persone, dalla loro individuale capacità di svincolarsi ed imporre la propria creatività, il proprio talento. Ecco allora che l’espressione artistica e musicale diventa per eccellenza una forma di ribellione e una forma di elevazione da tutto il resto. Forse, si potrebbe dire, la negatività diventa un incipit ad una valorizzazione che, a differenza dell’idealismo visionario e disincantato del precedente decennio, si immedesima nella realtà e si muove dentro di essa. La brulicante forza vitale della New York di quegli anni parte da una ferma volontà di disillusione, parte da una negazione radicale del bello costruito sull’ipocrisia e adattato ad una facciata.
Parte da un ‘no’ che si vuole aprire ad un ‘nuovo possibile’. Crollano gli steccati stilistici e ideologici, crolla il concetto di gerarchia dei valori e dei generi e la cultura di massa si mescola alle elite più ristrette. A tutti gli effetti la città di New York diventa un punto di osservazione elevato e privilegiato in cui è possibile ampliare la visuale in lontananza (tradizione europea, Cuba, contaminazioni afro-indiane), soffermarsi nell’intermedio (Manhattan, New Jersey, Brooklyn) o spostare lo sguardo in basso, nei cunicoli e negli anfratti prima di allora ritenuti di serie b (Bronx, East Harlem). L’autore ci riporta sotto gli occhi una topografia capillare e dettagliatissima della città, sembra quasi di muoversi in un ambiente virtuale in cui è possibile andare a curiosare in svariate stanze e ambientazioni, arrivando quasi a diventare compartecipi delle scene di volta in volta descritte. I protagonisti ci vengono presentati attraverso la quotidianità, a volte con aneddoti curiosi. La loro musica, che ovviamente il testo scritto non è in grado di restituirci, diventa una descrizione immaginifica, diventa vivacità e colore capace della stessa intensità e della stessa prorompenza che può suscitare l’ascolto. I cinque capitoli corrispondono agli anni presi in esame, dentro ad ognuno si ritrovano i dettagli e gli sviluppi della scena musicale, l’impellenza di nuovi stimoli avvertita dalla generazione di quel tempo in rapporto ai cambiamenti storici e sociali, l’impatto emotivo della cronaca viva così come del fardello delle tradizioni sui nuovi linguaggi e sulle nuove modalità espressive.
1973 Wild side walking. Ne traccia un sunto eloquente una celebre frase di Patti Smith «This is the era where everybody creates». I New York Dolls provano a rivestire di orpelli trash il minimalismo rude del rock. Bruce Springsteen e i Modern Lovers si affacciano alla ribalta. Successi anche per gli Stooges di Iggy Pop e per i Suicide. Tom Miller e Richard Meyers condividono lo stesso appartamento e le stesse passioni, danno vita con Billy Ficca ai Neon Boys e adottano gli pseudonimi di Tom Verlaine e Richard Hell in omaggio ai loro poeti preferiti. Sulla scena si affaccia anche una nuova generazione di musicisti fusion: Herbie Hancock, Wayne Shorter, John McLaughlin e Tony Williams. A Downtown, alcuni loft industriali vengono adibiti a abitazioni e spazi per concerti. Al Rivbea Studio, al 24 di Bond Street c'è l'abitazione di Sam Rivers, sassofonista che aveva suonato con Miles Davis. Il batterista Rashed Ali che aveva suonato nella band di Coltrane fonda l'Ali's Alley. Prende vita anche il minimalismo e la musica statica con un concerto di Steve Reich alla Carnegie Hall: Four Organs. Protagonisti: Philip Glass, Terry Riley e La Monte Young.
1974 Invent yourself. Motto di questo anno è nelle parole del pezzo dei Modern Lovers, Road Runner: "I've got the magic power of bleaness". Patti Smith e il chitarrista Lenny Kaye iniziano ad imporsi. Davvero l'appello a tuffarsi nella realtà sembra trovare terreno fertile. Nicky Siano lancia la moda della disco, Snu Ra e la sua Arkestra anticipano la world music. Si affermano djs come Kool Herc e Joseph Saddler che padroneggiano nella tecnica del breakbeat. Debuttano i Ramones, dilaga la moda del giornalismo musicale, pullulano fanzine e radio locali.
1975 Jungleland. Kahim Aasim diventa Afrika Bambaataa, maestro dei dischi, capace di far convivere i più disparati generi musicali. Si impongono i Blondie di Deborah Herry, nasce l'avanguardia jazz con Anthony Braxton, le etichette DIY. I Talking Heads danno il loro primo concerto al CBGB il 5 giugno. Si impone anche la scena latino americana con l'etichetta Salsoul dei fratelli Joe, Ken e Stan Cayre. Poi c'era la Fania. Le voci di Héctor Lavoe e Ismael Rivera erano le migliori nel campo della salsa.
1976 These are the days my friends. Richard Hell aveva nel frattempo formato gli Heartbreakers con gli ex Dolls convertiti al punk: Johnny Tunders e Jerry Nolan. I Television erano invece tra i gruppi che abbracciavano una poetica non del tutto conforme al punk che stava esplodendo. L'approccio DIY esplose anche sul versante giornalistico
con la comparsa di due nuove testate come Punk e New York Rocker. I Dictators furono una delle band più rappresentative del punk, insieme ai Ramones. Il CBGB il locale più emblematico. Iniziò a fare la sua comparsa anche l'eroina messicana e il THC sintetico che andava a sostituire la penuria di fumo di quell'anno dovuta ad un maggiore controllo della polizia in vista delle celebrazioni del bicentenario degli Stati Uniti.
1977 La resurrección. Apre lo Studio 54. Debuttano Meredith Monk e Laurie Anderson con il doppio LP "Airwaves" sulla nuova etichetta One Ten Records. Al Disco Fever andava alla grande Grandmaster Flash. Sempre di più New York è fulcro di globalizzazione e incrocio di generi. La musica entra in sintonia con il visivo. La stessa arte dei graffiti è l'iconografia più esplicita dell'ecumenismo multietnico e della rivalsa dei ghetti. Il sindaco Beame è al centro di un'inchiesta per frode e la crisi fiscale dilaga. Sembra essere l'apice della degenerazione e del caos ma mai come nel 1977 la scena culturale era mai stata tanto ricca e vivace.
A distanza di quaranta anni è forse venuta meno quella urgenza quasi violenta e incontenibile che aveva permesso alla grande metropoli statunitense di diffondere la propria voce di insofferenza a livello davvero planetario. Gli occhi dell'autore, diventato un affermato critico musicale per New York Times, Rolling Stone, e la National Public Radio, hanno ora una percezione davvero più adulta e matura. La scena newyorkese continua ad essere in fermento e lo sarà certamente anche nel futuro ma si punta ad un linguaggio più morbido e disteso. Si cerca una dimensione estetica sempre più vicina all’arte e alla multimedialità, sempre più aperta a captare le cosiddette voci fuori dal coro. A New York ora sono di casa Animal Collective e Sonic Youth, Grizzly Bear, Akron/Family e Yeah Yeah Yeahs. Ci sono i guru intoccabili di sempre: David Byrne, Patti Smith, Steve Reich, La Monte Young e Eddie Palmieri. Ma di quegli anni sembra davvero irripetibile la forza contaminatrice, la capacità di scrivere pagine indelebili di storia della musica e della comunicazione di massa e al contempo riuscire ad anticipare spunti e ispirazioni che detteranno le nuove tendenze. Ora l’industria musicale sembra essere caduta nel circolo vizioso della massimizzazione dei profitti ad ogni costo, senza rendersi conto che da spremere è rimasto davvero ben poco. Peccato non aver valorizzato le scene free jazz, loft jazz e fusion degli anni settanta nel nome di un revisionismo classico davvero ottuso e auto compiaciuto che ha inibito l’estetica sperimentale e lo stile free. Fenomeni come John Zorn, Art Ensemble of Chicago, David Murray e James Carter sono importanti per riprendere le fila delle nuove contaminazioni, di quella linfa vitale necessaria per guardare al futuro. Anche nell’era del digitale ciò che sembra dimostrarsi davvero vincente è ciò che sa aprirsi a un’inclusione ampia e multi sfaccettata. Il volume è corredato di bibliografia, discografia, filmografia e indice dei nomi e luoghi.
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