Funeral Suits LILY OF THE VALLEY
[Uscita: 22/01/2013]
I Funeral Suits sono quattro ragazzotti, Brian James, Mik McKeogh, Greg McCarthy e Dar Grant, originari di Dublino che arrivano al loro esordio su Model Citizen dopo una lavorazione durata ben due anni e con l’ausilio alla produzione di Stephen Street (già con gente come The Smiths e Blur) e intanto facendo da support band a gruppi quali Franz Ferdinand, Passion Pit, The Maccabees e Local Natives. La risultante è questo “Lily of the Valley” disco di chiara matrice britannica anni 00. Infatti, se i rimandi ci portano dalle parti di The Maccabees, Klaxons, Wombats, Two Door Cinema Club e Bloc Party con i riff di chitarra a farla spesso da padroni su un tessuto di elettronica sempre a contorno ma mai invadente dall’altra però è nell’insieme un lavoro godibile e per nulla noioso con liriche che spaziano da tematiche sulla morte al rapporto con la tecnologia fino allo spazio astrale dando però l’impressione di trattare il tutto in quella maniera volutamente distaccata ma al tempo stesso quasi ingenua come a non volersi curare di quello che sarà il risultato finale. Ecco così, dopo l’apertura di Mary’s revenge che con le sue chitarre epiche e taglienti ci fa subito capire che aria tirerà lungo tutto il disco, brani come il singolo d’esordio Colour fade uscito già alcuni mesi fa, con una batteria figlia degli MGMT ed una chitarra tanto semplice quanto penetrante a contornare una voce inspirata.
Oppure, All those friendly people, piccola gemma indie-rock con un lungo testo (ogni tanto anche qualcuno che ha qualcosa da dire non guasta) manifesto dell’inquietudine adolescenziale (“Cos I’ve been drowning in the sound, lying on the motorway writing songs and wasting away”) sicuramente da strizzatina d’occhio alle radio ed ai dancefloor più alternativi. C’è anche spazio per l’indie-folk intimista di Florida e le sperimentazioni art-rock di Machines too con chitarre che rimandano ai Placebo per chiudere con I still love the high dall’incedere lento e notturno colorato da voci come stranite ed i rintocchi di campana che la renderebbero buon sostegno sonoro di un film di Stephen Frears (non chiedetemi perché ma a me ad ascoltarla è venuto in mente “Tamara Drewe”). Non saranno la nuova Next Big Thing di NME (e questo potrebbe anche risultare positivo) ma, sicuramente un gruppo giovane che dimostra di avere studiato molto bene la lezione dei suoni britannici dell’ultimo decennio riuscendo, in questo esordio, a renderli in maniera personale e per nulla monotona seppur in alcuni punti magari un po’ ripetitiva, oscillando tra chitarre distorte e ritmiche pop per un disco piacevole e che scorre quasi senza accorgersene. Per la crescita c’è tempo ma le basi ci sono tutte, da tenere d’occhio!
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