Deep Purple INFINITE
[Uscita: 07/04/2017]
Inghilterra #consigliatodadistorsioni
Ove riuscissimo a spogliarci, almeno parzialmente, di soverchie sovrastrutture ideologiche e paleo-culturali, secondo cui, almeno nel campo precipuamente musicale, il rock di quarant’anni fa sia di gran lunga superiore a quello che si fa oggi (cosa, d’altronde, quasi sempre vera…), battezzeremmo questo ventesimo album in studio dei leggendari Deep Purple, “inFinite”, come un prodigio sonico di pregevole fattura. Già col precedente “Now What?!” del 2013 la sensazione di essere al cospetto di una band, carica di gloria sia pure, ma ancora in grande spolvero creativo, rilevava in maniera alquanto netta. Nonostante le grevi assenze rispetto alla line-up classica (a cagione della dolorosa scomparsa del grande Jon Lord, in primis, ma anche delle ritrosie a tornare dell’elfo Ritchie Blackmore), i Purple riuscivano a intessere trame di ulteriore e mitologica qualità. Ora, dinanzi alla volontà programmatica di porre fine a mezzo secolo di evoluzioni artistiche di eccelso livello, non si può non stigmatizzare che detto epilogo, alla luce della resa musicale attuale, rischia di esser qualificato come...prematuro. Musicisti del calibro di Don Airey alle tastiere, di Steve Morse alla chitarra, oltre ai mostri sacri Ian Gillan, Ian Paice, Roger Glover, giustificherebbero di per sé la perpetuazione sine die dell’avventura dei Deep Purple.
Ma tant’è. Certo, la voce di Gillan non ha più l’estensione del periodo di “In Rock” o “Machine Head” ma vibra ancora di magiche consonanze, l’elastico suono del passato non è più rinvenibile qui, ma l’orma dei fuoriclasse è intatta. L’impasto strumentale suona come prodigiosamente omogeneo, sin da quello che potrebbe apparire come il tassello debole dell’album, lanciato emblematicamente come singolo, Time For Bedlam, voce riccamente modulata su un tappeto di tastiere multicolori, e proseguendo per brani, tra gli altri, di eccelso impianto creativo, quali All I Got Is You, con elementi, si direbbe, di diretta ascendenza progressive, tra le pieghe, che contempla oltre alla robusta base rock della sezione ritmica, le tastiere in ardita evoluzione superbamente coniugate con la voce sciamanica di Ian, The Surprising, ballata di preziosa fattura nella quale la voce di Gillan brilla di quieta luce adamantina, affiancata dall’arpeggio sapiente della chitarra di Morse e dalla pirotecnia tastieristica di Airey. Birds Of Prey propone un affresco di neo-classico hard rock, con basso e batteria in clamorosa imponenza e chitarra lanciata in incoercibile corsa lungo sentieri siderali. Una cover magistrale e pregnante di Roadhouse Blues dei formidabili e indimenticati Doors sigilla un album di gemmea bellezza. E se proprio i Deep Purple devono concludere il loro ciclo lunare, sia resa loro lode nei secoli dei secoli.
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