Behemoth I LOVED YOU AT YOUR DARKEST
[Uscita: 05/10/2018]
Polonia
La controversa uscita del 2014 con “The Satanist” ha fatto dei Behemoth la punta più avanzata della ricerca musicale legata alle lande ormai desertificate del death/black meta e affini; una uscita che ha lacerato il seguito della band polacca dividendo la recezione in entusiasti satanisti traghettatori nell’oltre-Acheronte e scoraggiati della perdizione impegnati a modulare una litania che suona più o meno come «anche l’inferno non è più quello di una volta». Informiamo subito questi ultimi orfani della conservazione malefica: i Behemoth insistono sulle coordinate che da almeno cinque anni disegnano i contorni della loro pratica musicale e difficilmente “I Loved You At Your Darkest” può essere considerato un album afferente al genere black metal, almeno per come questa etichetta è stata costruita e definita negli ultimi vent’anni. Merito o demerito, bisogna dire, anche dell’ottimo lavoro fatto dietro il mixer da Matt Hyde (Slayer, Children Of Bodom). È evidente la tensione di Nergal e soci verso la definizione di un altrove sonoro del tutto nuovo, la grande cura dei particolari e la prova eccellente di Darski alle corde vocali.
Riferimenti progressive, (specialmente in Angelus XIII con raffiche di rullante che ricordano i primi Dream Theater o le ribellistiche esalazioni doom/hardcore di If The Crucifixtion Was Not Enough) non devono sfuggire in un disco che sembra costruito intorno a pochi essenziali momenti privilegiati dai quali irradia il senso che sostiene anche scelte francamente risibili: i coretti efebici e bianchissimi di Solve valgano come esempio di quella estetica dell’ossario che da anni ormai rappresenta il marchio di fabbrica degli accoliti nergaliani. È così che lo stucchevolissimo inno di boy scout di Satana si tramuta nella possente Wolves On Siberia con la quale capiamo meglio con cosa abbiamo a che fare e con quale singolare razionalità siamo entrati in contatto. Solo in alcuni rarissimi casi privilegiati violenza e tecnica erano entrati in una tale zona di indistinzione nella quale si aggira la nerissima creatura metal/pop battezzata God=Dog. Ciò che interessa è l’uso ipnotico della chitarra e la ripresa del tema presente nella intro delle voci bianche a scandire ancora l’indistruttibilità del ricordo nei confronti di Elohim – come è noto il primo tra i nomi di Dio. Dal punto di vista delle ascendenze, dei quarti di nobiltà musicale che i Behemoth espongono, da Sabbath Mater a Havohej Pantocrator fino alla conclusiva We Are The Next 1000 Years, non si esce dal binomio d’oro My Dying Bride/Therion a riprova che forse la novità è tutta nel già detto. Notevole è la capacità dei polacchi di creare spirali sonore in grado di catturare in un unico gorgo il senso e il suono risucchiando tutto in una hegeliana vertigine al termine della quale ogni cosa è riscritta e i momenti attraversati come necessari passaggi della complessità di un’opera che possiede dignità solo a posteriori. “I Loved You At Your Darkest” al momento è uno dei punti più avanzati della ricerca nei territori della musica estrema.
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