The Rolling Stones Hackney Diamonds
[Uscita: 20/10/2023]
Nell’atto di recensire un disco di brani inediti dei Rolling Stones, spiovente in pieno terzo millennio e soprattutto uscito dopo ben diciotto anni dal precedente, occorrerebbe spogliarsi di ingiustificabili forme di pregiudizio, in un senso e nell’altro, senza cioè farsi condizionare dal retro-pensiero se sia politicamente corretto apprezzarli ancor oggi, abiurando da un malinteso senso di ricerca di underground a tutti i costi, ma nemmeno lasciandosi travolgere da troppo facili entusiasmi dinanzi all’onustà di cotanta e gloriosa storia. In questa prospettiva, “Hackney Diamonds”, ci racconta di un gruppo vivo e vegeto. Si potrà obiettare sulla produzione del medesimo album (Andrew Watt), sulla presenza più o meno discutibile di taluni ospiti (Lady Gaga), e di una line-up comunque di livello, con Steve Jordan alle pelli in quello ch’era stato il dominio dell’indimenticabile Charlie Watts, nonché di un validissimo Matt Clifford alle tastiere, ma l’esito è ottimo. Il disco fila via come un treno notturno su ampie lande desertiche, imbevute di gagliardo rock-blues con qualche sconfinamento nel pop più scaltro e accattivante. L’incipit, Angry, dà già la misura, lo specimen, del leit-motiv dell’intero lavoro, con Jagger che lancia negli spazi siderali la sua inconfondibile voce e i cattivi riff di chitarra del satanasso Richards. Con la successiva traccia, Get Close, i Nostri ammiccano a un pop-rock di pura ‘captatio benevolentiae’ nei confronti dell’ascoltatore, un segmento di una qual certa debolezza invero, cui nemmeno il piano di Elton John e il sax sinuoso di James King riescono a dare lucentezza e corpo. La ballata da deliquio post-prandiale di Depending On You si svolge lenta e soffice come una coltre di neve artificiale su tappeti di note blues, ma non attinge a vette di grande creatività. In stile di crudo rock’n’roll irrompe Bite My Head Off, con Paul McCartney al basso, un brano sporco e polveroso di grande impatto, con le chitarre che graffiano con potenza luciferina, gettando spruzzi di vetriolo tra un solco e l’altro. Whole Wide World è un’altra frustata di grande rock, voce ispirata e ruvida e chitarre in piena adustione, con la sezione ritmica che martella impietosa. Dalle infuocate note precedenti alla liquida colata di note folk-blues di Dreamy Skies il passo è breve, chitarra acustica e voce dalle morbide spire serpentine per un brano che avvolge i sensi. Il pop-rock più accattivante, teso alla ricerca di facile seduzione, innerva Mess It Up, brano che funziona come invito a muovere membra da troppo tempo anchilosate, classica traccia da hit alla maniera, sapiente, degli Stones. Folate blues di rimarchevole fattura imbevono il tessuto sonoro di Live By The Sword, con l’eterno Bill Wyman al basso, il piano agitato di Elton John, e le chitarre che lacerano la tela della notte. Driving Me Too Hard immette dosi non letali di blues nelle arterie, dispiegandosi quietamente e posandosi lieve come soffice ovatta sui padiglioni auricolari, mentre la ballata scarna e desertica di Tell Me Straight, con il temibile Keith Richards alla voce, introduce al lento flusso sospeso tra folk e blues di Sweet Sounds Of Heaven, con la voce di Lady Gaga e il piano di Steve Wonder, brano orientato alla ricerca di facili consensi e alquanto debole nell’insieme. La perla dell’album, a nostro parere, è la fangosa (Muddy Waters) e irresistibile Rolling Stone Blues, chitarra acustica, armonica e voce demoniaca di Mick. In ultima analisi, un disco di fattura elevata. Col dubbio che il patto firmato col sangue con il Nemico abbia o meno un termine ‘ad quem’ o trovi rescissione con gli ultimi spasmodici riff di chitarra tra le fiamme dell’Ade.
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