Smokey Fingers PROMISED LAND
[Uscita: 9/09/2016]
#consigliatodadistorsioni
The Road Is My Home. Basta il titolo di una canzone per accendere uno scenario fatto di highway, Harley-Davidson, ferrovie senza fine, cheap motels (senza piscina) e Black Madame (tanto per citare un altro titolo...) piene di pelle e borchie. La miscela alcolica degli Smokey Fingers è ad alta gradazione ed altissimo voltaggio. Dentro ci puoi riconoscere tutte le garanzie di numi tutelari a prova di bomba. AC/DC a zonzo per la Florida, tanto che Damage Is Done potrebbe stare tanto su “Powerage” che su “Second Helping”; poi le ombre di lunga malinconia in ballatone stile Simple Man, Free Bird o Highway Song, qui rintanate nella nostalgia acustica di No More. Infine, gli attacchi furibondi dei Blackfoot di “Strikes” e “Tomcattin” che spruzzano di rosse tinte heavy un album di puro rock distillato nel rovere. E se vi sembra di avere già sentito lo stesso riff altre decine di volte, bè magari non vi sbagliate; eppure un ascolto in più potrebbe ancora essere un buon anestetico alla sterile realtà che troppo spesso vi sta attorno.
Dodici brani, 53 minuti di vento tra i capelli, cappelli da cowboy che piacerebbero al Raylan Givens di “Justified”: ecco che la Terra Promessa del quartetto lodigiano è una visione assolata a Stelle e Strisce che sventola sul parabrezza di una Dodge Charger lanciata a tutta velocità tra Macon e Jaksonville.
L’esordio, “Columbus Way”, è alle spalle da ormai 5 anni, e nel frattempo la band ha girato in lungo e in largo per platee zeppe di bikers tra Italia, Svizzera e Germania costruendosi una robusta reputazione tra gli Hells Angels d’Europa. Sound azzeccato, vigoroso, ben sicuro di sè, sempre caldo e pieno di riverbero, fatto di miagolii slide, di languori pedal steel, di riffoni “Gibson & Marshall”, su cui scorre agile la voce di Gianluca "Luke" Paterniti, dall’umanissimo aroma di bourbon, valore aggiunto di una band ormai rodata.
Album concepito tra Italia e Stati Uniti, che in effetti odora forte di avventure “on the road”, di autostop al tramonto, di pick-up scassati e sperdute stazioni di servizio al confine del Texas. Ma che fa pure leva su di una romantica componente melodica, ben celata dalla ritmica serrata e dagli assoloni alla Allen Collins, cortesia di un Diego “Blef” Dragoni le cui dita davvero fumano di feeling e sudore. Sul volto, un mezzo sorriso pieno di consapevolezza, un pizzico di disillusione, ma che mai rinuncia alla speranza; perché altrimenti, che siamo qui a fare? Nulla, ma davvero nulla da invidiare a colleghi confederati oggi lanciati sulla cresta dell’onda come Tiebreakers o Buffalo Summer, e certo basterà l’attacco distruttivo di Stage per illuminare il volto di ogni appassionato di rock classico (anzi, classicissimo) a tinte metalliche.
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