Fu Manchu CLONE OF THE UNIVERSE
[Uscita: 9/02/2018]
Stati Uniti
La band simbolo del genere stoner torna dopo “Gigantoid” del 2014 con l’album numero dodici a sventolare il vessillo della longevità in assenza di quello della creatività. Era il 1990 quando i Fu Manchu pubblicavano il singolo "Kept Between Trees" contribuendo in modo decisivo all’ultima grande stagione rivoluzionaria della musica rock. Ma dopo la rivoluzione, come si usa, scatta la normalizzazione che nel caso dei Fu Manchu passa per l’autarchia discografica e una pacificazione del suono e delle idee capace di tenere alta la qualità standard delle loro produzioni. È così anche questo “Clone of the Universe” esce per At the Dojo Records, l’etichetta di proprietà della band, garanzia di indipendenza e probabilmente anche di ripetitività. Buon saggio di ciò che sin qui si è detto è l’iniziale Intelligent Worship dotata di un impasto ritmico trascinante, chitarre in grado di schiaffeggiare violentemente, un uso fine del wah da parte di Scott Hill capace di sfruttarne ogni singolo miagolio, eppure una insopprimibile sensazione di minestra riscaldata scorre sotto rumorose lastre sonore per poi carsicamente farsi strada nell’orecchio dell’ascoltatore.
E la minestra riscaldata, è facile capirlo, è piuttosto indifferente alla qualità con la quale è stata prodotta. O alla melodia piuttosto ricercata che da sempre colora le composizioni dei Fu Manchu e che, anche nel caso di (I’ve Been) Hexed, rappresenta un valore aggiunto alla costruzione quasi contrappuntistica tra chitarra e sezione ritmica che non rifiata neanche un secondo nella successiva tiratissima Don’t Panic. C’è tuttavia anche spazio per qualche schizzo di lordura con lo sludge-blues di Slower Than Light in cui le pentatoniche si nascondono tra chorus distorti che sembrano quasi rivolgere le note contro sé stesse tanto da produrre una metamorfosi ritmica al finale in climax ansiogeno. Clone the Universe seduce con il suo riffing veloce e ruffiano proponendosi come un’ottima sintesi di tutto il disco.
Discorso a parte va fatto per Il Mostro Atomico che con i suoi venti minuti scarsi vale da sola metà del minutaggio complessivo e la quasi totalità del valore artistico di Clone the Universe. L’assetto da vera e propria suite è suffragato dalla presenza di Alex Lifeson dei Rush alla chitarra, il quale garantisce la fluidità meticcia dei generi e degli stili che scivolano l’uno nell’altro in assoli preziosi. L’uso massiccio dell’armonizzazione e della distorsione in delay alludono a fluttuazioni spazio-temporali sottolineate da lunghe pause distensive e forti riprese sostenute da rapide successioni nell’ordito ritmico.
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