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27 Aprile 2020

L’Uccello Dalle Piume Di Cristallo – 50esimo Anniversario Dario Argento

1970 - Titanus

Regia: Dario Argento. Cast: Enrico Maria Salerno, Tony Musante, Suzy Kenndall, Umberto Raho, Werner Peters, Mario Adorf. Genere: Giallo. Paese: Italia, 1970. Durata: 96 minuti. Distribuzione: Titanus.

50 anni fa usciva "L’uccello Dalle Piume Di Cristallo" e Dario Argento scriveva la storia del noir all’italiana. E dire che talvolta la quotidiana battaglia di un popolo in quarantena sembra assumere proprio i contorni di un classico di Dario Argento. Un killer invisibile, subdolo, imprevedibile, spesso e volentieri implacabile. Tutti sanno che esiste, conoscono qualche frammento dei suoi vizi, qualche indizio delle sue modalità di azione, ma nessuno sa  dove si nasconde, quale sarà la sua prossima mossa, quali sono i nomi inseriti nella spietata lista di proscrizione del mietitore. E così tutti vengono catapultati in un incessante gioco al massacro, in un estenuante inseguimento del gatto con il topo, dove gli interpreti dell’uno e dell’altro ruolo non sono ben definiti e spesso si scambiano le parti. Da un lato, il mondo intero insegue l’assassino che semina il terrore e condiziona milioni di vite, attende un passo falso che non arriva facilmente, studia attentamente il metodo per stanarlo. Ma la belva sfugge e si ripropone in forme sempre più perigliose. Dall’altro, il virus attacca subitaneamente, colpisce a tradimento, potrebbe nascondersi proprio là, oltre la porta di casa. È percepito nell’aria, a torto o a ragione, come la candidata futura vittima di un lungometraggio noir fiuta l’omicida intorno a lei, si blinda nella sua stanza, si guarda intorno con circospezione, respira affannosamente, si rannicchia in un angolo, spalle al muro, brandisce un coltello. Assediata, in attesa della discesa della mannaia. La partita è lunga, densa di colpi di scena, di tasselli che compongono il collage e stringono il cerchio intorno all’assassino.  Alla fine della corsa il killer avrà mietuto parecchie vittime, ma verrà annientato o reso inoffensivo. Il 27 febbraio 1970 debutta nelle sale cinematografiche il primo killer di Dario Argento, il cattivo di quell’uccello dalle piume di cristallo che avrebbe cambiato per sempre la storia del giallo tricolore. Mezzo secolo dopo, più o meno negli stessi giorni, si affaccia nel Bel Paese un’entità sconosciuta, ancora più pericolosa delle creazioni del cineasta laziale, che circola a tutt’oggi negli anfratti della penisola, e che cambierà in qualche modo la storia e gli equilibri della nostra nazione. Strani aneddoti temporali, beffe del destino. Probabilmente, mai come ora avremmo bisogno dell’intuizione di uno dei protagonisti argentiani, quelli che affrontano il nemico a viso aperto, per mettere fine ai saccheggi virulenti di questi mesi nefasti. Eppure, a dispetto della  fama, consolidata nel corso degli anni, come “maestro del brivido” nostrano, Dario Argento non ha mai ricevuto troppe lettere d’amore dalla critica italiana, mentre all’estero – e soprattutto negli States – ha collezionato da subito maggiori attestati di stima. Spesso viene additato come uno degli epigoni di Alfred Hitchcock. In realtà, benché l’opera argentiana presenti qualche evidente richiamo al grande cineasta britannico (basti pensare al colpo di scena, ai risvolti psicopatologici, allo humor che stempera a tratti la tensione), ha sviluppato un’impronta marcatamente diversa, che la rende immediatamente riconoscibile al pubblico. I veri mentori di Dario Argento, per stessa ammissione del cineasta, sono stati due giganti del Novecento italiano quali Sergio Leone e Michelangelo Antonioni. L’ incontro professionale con Sergio Leone avviene sul set di un grande classico del cinema western, "C’era Una VoltaI Il West", datato 1968, nel quale il maestro del brivido figura come sceneggiatore, lavorando spalla a spalla con un altro collega esordiente: Bernardo Bertolucci. L’occasione è propizia per apprendere i più reconditi segreti della regia, e per ampliare la visione cinematografica tout-court. Dario Argento porterà con sé il ricordo del fuoriclasse del genere spaghetti-cowboy, tributandolo nella realizzazione di alcune azioni e di alcuni personaggi (come dimenticare, per esempio, il pittoresco Diomede/Bud Spencer nel film "Quattro Mosche Di Velluto Grigio"?). Michelangelo Antonioni, dal canto suo, è da sempre fonte ispiratrice per il festeggiando giallista nella creazione di ambientazioni a tinte fosche e nell’accanimento per la fotografia e il dettaglio. I protagonisti argentiani vagano per le città attraversando vialoni solitari, cupi, deserti, dove d’un tratto s’imbattono inconsapevolmente in una scena che cambia gli equilibri della storia, o vanno incontro disgraziatamente alla lama dell’assassino. I meandri romani e torinesi ove il Tony Musante dell’opera prima, o il David Hemmings di "Profondo Rosso" assistono alla scena del primo crimine, rievocano la poetica ma angosciante peregrinazione di Monica Vitti in una città eterna suggestivamente desolata ne "L’eclissi", terzo ed ultimo capitolo dell’antonioniana trilogia dell’incomunicabilità. Quando diventano testimoni oculari di un’aggressione, immortalano la scena con le pupille e cercano costantemente di riportarla alla mente tramite flash-back, esasperando uno zoom virtuale su quel particolare che sfugge e che potrebbe essere la chiave di volta del mistero (mirabile riecheggio degli ingrandimenti da camera oscura del fotografo londinese del capolavoro antonioniano "Blow-up"). Qualche anno prima dell’esordio rivoluzionario di Dario Argento dietro la macchina da presa, l’ottimo Mario Bava emette i primi gemiti del giallo all’italiana (specialmente in "Sei Donne Per L’assassino", mentre il precedente "La Ragazza Che Sapeva Troppo", benché da più sirene considerato il capostipite del genere, appare un ottimo adattamento del noir di hitchcockiana memoria ai nostri confini), amalgamando una serie di ingredienti che sarebbero stati, in parte, ripresi e sviluppati dalle pellicole del cineasta laziale. Gli omicidi avvengono in sequenza, con modalità differenti tra di loro, benché accomunate da una marcata efferatezza, per mano di un killer senza volto che agisce immancabilmente protetto da guanti neri.

Dario Argento raccoglie lo stato dell’arte a piccole dosi, lo destruttura e lo ristruttura assecondando le anarchie della sua immaginazione. Rapisce e disorienta lo spettatore, stordisce ed al contempo esalta le percezioni visive ed uditive con l’estremizzazione del primo piano, rapidi capovolgimenti di inquadratura, tonalità di colori talvolta abbacinanti, un ralenti al fulmicotone e l’utilizzo di musiche assordanti nei momenti essenziali. I protagonisti buoni della produzione argentiana sono personaggi comuni, prevalentemente solitari, che si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato e vengono loro malgrado risucchiati in un gioco più grande di loro. Un gioco che decidono di affrontare a viso aperto, un po’ per autodifesa, un po’ per filantropia e desiderio di verità e giustizia. I volti del bene appartengono ad attori semisconosciuti od esordienti (Tony Musante, Michael Brandon, James Franciscus) - forse per dare al ruolo salvifico quel tocco di ingenuità in più - che vengono affiancati da interpreti di notevole spessore ed esperienza (Enrico Maria Salerno, Karl Malden, Alida Valli). Il buono, testimone del primo delitto o indirettamente coinvolto nella spirale di sangue, ingaggia un testa a testa a distanza con il mostro, aiutato lungo il tortuoso cammino da anime volenterose che spesso non riescono a vivere abbastanza per districare la matassa. La polizia brancola nel buio, viene dipinta in tutta la sua debolezza di fronte al crimine, giunge sempre enormemente in ritardo rispetto alle indagini dell’uomo comune, viene talvolta finanche sbeffeggiata e rappresentata con un allure caricaturale. Probabile espressione della sfiducia verso l’autorità ed il potere che serpeggiava in buona parte del movimento artistico di quel periodo (da notare che coetaneo dell’esordio argentiano è l’indimenticabile Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto). Il cineasta romano mette il suo pubblico a stretto contatto con l’assassino. La cinepresa diventa lo sguardo del male che scruta la prossima vittima, il ralenti i suoi movimenti felpati, il sonoro il suo respiro. Da altre angolazioni si notano lembi della sua identità che sfugge fino all’epilogo, con inquadrature insistenti su guanti, gioielli, oggetti della sua dimora, e soprattutto sugli occhi, importante feticcio del cinema argentiano. Quando sembra intravedersi la luce in fondo al labirinto l’uscita viene sbarrata. Un nuovo avvenimento imprevisto, un dettaglio trascurato, un tassello ancora mancante provoca un ulteriore ribaltamento degli equilibri che conduce la narrazione al capolinea. Il ricco banchetto argentiano viene insaporito da altri condimenti che costituiscono un marchio di fabbrica del regista. Le sequenze thrilling vengono smorzate dall’effimera apparizione di personaggi grotteschi che danno vita a qualche siparietto leggero, volendo risibile. Talvolta sono vere e proprie macchiette che – a differenza del sofisticato umorismo british di Alfred Hitchcock – regalano una godibile parantesi di semplicità romanesca. L’azione del killer è prevalentemente spinta da un movente di carattere psicologico, legato a doppio filo ad un evento traumatico che ne ha costellato il passato. Un trauma che riaffiora all’improvviso, per circostanze fortuite, e che scatena la furia omicida. Le scienze naturali (in particolare la zoologia, l’anatomia e la genetica), una delle passioni del cineasta, vengono sparse nelle pellicole fino a diventare una delle chiavi di volta della sceneggiatura. Non ha importanza la validità scientifica dell’elemento o della scoperta (che invero manca), ma il volo pindarico della regia, che crea un simbolo da tramandare ai posteri.

L’uccello dalle piume di cristallo rappresenta il debutto perfetto, un prodotto che fonde magistralmente la totalità delle caratteristiche tipiche del noir che svetterà nel panorama italiano (e non solo) negli anni ’70 e che costituirà un modello di riferimento per i decenni successivi. Sam Dalmas/Tony Musante è uno scrittore italo-americano con una spiccata passione per l’ornitologia, giunto nella capitale italiana accompagnato dalla fidanzata per perfezionare una ricerca sul modus operandi di alcuni esemplari di uccelli rarissimi. Una sera, rientrando a tarda ora dal laboratorio, assiste all’aggressione (tentato omicidio?) di una donna perpetrata all’interno di una galleria d’arte. Sam accorre e prova invano ad irrompere nella boutique, l’oscuro avventore fugge senza essere identificato, la vittima rimedia una ferita d’arma da taglio ma si salva dal colpo letale. L’episodio potrebbe essere correlato con i fatti di cronaca nera che, da qualche tempo, stanno sconvolgendo la quotidianità della capitale: un serial killer semina morte – tramite ripetuti e crudeli fendenti - tra le giovani donne di bell’aspetto. Donne che non sembrano avere alcun legame tra di loro, né similitudini che trascendano la mera avvenenza fisica. Il Commissario Morosini (un ottimo Enrico Maria Salerno), che coordina le indagini sugli omicidi in sequenza, interroga Sam e gli intima di rimanere a disposizione delle autorità, rimandando il suo rientro negli Stati Uniti. Dapprima riluttante, lo scrittore cerca di far luce sul mistero in prima persona, instaurando un rapporto ambiguo di collaborazione con le forze dell’ordine. Queste ultime navigano senza timone, senza alcuna rotta significativa da seguire, assistono impotenti all’aumentare delle vittime e vengono apertamente sfidate da telefonate anonime. Cercando la soluzione del rebus Sam si imbatte in vari personaggi che a mezza via tra l’inquietante ed il  burlesco.Tra questi spicca il tragicomico pittore Berto Consalvi (interpretato da Mario Adorf), artista naif che ha scelto l’eremitaggio estremo in campagna – arrivando persino a murare ogni entrata del piano inferiore della sua cascina – e si ciba di gatti, autore in passato di un dipinto che immortala una scena terribilmente somigliante alle modalità di azione del killer. Lo studio ornitologico del protagonista - coadiuvato dal suo amico/collega Carlo - conduce ad identificare tra le tracce un imponente volatile chiamato Hornitus Nevalis, inesistente in natura quanto mirabile nel suo simbolismo, da cui deriva il titolo dell’opera (in realtà un po’ iperbolico). Ma non basta. Continui capovolgimenti di fronte, lotte al cardiopalma tra il bene visibile e il male oscuro, assedi asfissianti, attimi di euforia che fanno da contraltare a scampoli di rassegnazione accompagnano lo spettatore fino alla rivelazione. E, ovviamente, il focus della memoria su quel particolare che sfugge, che potrebbe essere la vera essenza del caso, o un semplice scherzo dell’immaginazione di Sam (proprio come il dubbio che attanaglia il fotografo di "Blow-up"). Prima dei titoli di coda, il Commissario Morosini illustra in diretta tv il risultato delle indagini (vendendo all’opinione pubblica dei meriti che la polizia non ha), con le conclusioni circa l’identità e il movente dell’omicida (esplicito omaggio all’explicit dell’hitchockiano "Psycho"). La sorte della pellicola all’atto dell’uscita nelle sale è anch’essa in linea con le caratteristiche storiche argentiane. Soltanto qualche tiepido applauso si leva dalla platea del pubblico e della critica ai titoli di coda. Il film riesce comunque ad aggiudicarsi il Premio Cesar come miglior opera prima e, con il passare degli anni, viene progressivamente rivalutato dai cinefili, fino a diventare un autentico paradigma del genere e a meritarsi – per opinione diffusa - un posto di rilievo nel pantheon della settima arte indigena.

L’uccello dalle piume di cristallo rappresenta il primo atto della virtuosa trilogia degli animali, completata nel giro di appena un anno e mezzo da "Il Gatto A Nove Code" e "Quattro Mosche Di Velluto Grigio". Il trittico è occasione per un sodalizio artistico firmato con il maestro Ennio Morricone, che si cimenta con una musicalità atipica, scandita da vocalizzi candidi e irruzioni elettroniche. Ad un lustro di distanza il maestro gira la sua opera più celebre, quel "Profondo Rosso" che, forse, non entra a far parte della saga faunistica soltanto per un repentino cambio di programma (il progetto, inizialmente, avrebbe dovuto essere intitolato "La Tigre Dai Denti A Sciabola", anche se il regista addita quell’idea come una semplice boutade nera). Il film valorizza gli elementi tradizionali del giallo argentiano, enfatizzandoli con una maggiore spettacolarizzazione dei delitti, e dando spazio per la prima volta alla crescente curiosità del regista per i fenomeni paranormali. Passaggio di consegne per le musiche: la colonna sonora è affidata alle note martellanti dei Goblin, che affiancheranno professionalmente il cineasta in svariate produzioni. Raggiunto l’apice della notorietà, il cineasta abbandona il thriller per sperimentare il suo acume nel montaggio di racconti di taglio horror-gotico. Nasce così, nel 1977, una seconda trilogia dedicata a tre sorelle, regine del male che albergano nelle rispettive dimore diaboliche di Friburgo, New York e Roma. La loro sanguinosa malvagità viene raccontata dalla celeberrima fiaba nera "Suspiria", dal gioiellino "Inferno", e dal tardivo e purtroppo assai deludente "La Terza Madre" (tentativo anacronistico e poco convinto di portare a compimento, ad un trentennio di distanza e in crisi di ispirazione acuta, la promessa di chiusura della serie). Dario Argento riporta in auge il suo giallo a singhiozzo (a partire dal 1982 con l’inquietante "Tenebre"), ed inaugura  un vero e proprio ping pong tra generi differenti, non disdegnando alcune creazioni borderline (tra le quali è possibile annoverare l’ottimo "Phenomena", datato 1985, film più volte eletto dallo stesso regista quale sua creazione preferita, che unisce un assassino in carne ed ossa a contorni dalle tinte soprannaturali). L’unico vero ritorno al thriller dai crismi primigeni, però, si ha soltanto nel 2001 con l’apprezzabile, pur se con visibili segnali di declino, "Non Ho Sonno". A partire dagli anni ’90, purtroppo, il regista romano perde progressivamente lo smalto dei tempi migliori. Salvo qualche valida eccezione, l’autore sembra imprigionato in alcuni cliché, che non riesce a valorizzare (complice anche, probabilmente, il radicale cambio di era negli effetti visivi) e talvolta banalizza estremamente. Alcune pellicole sembrano quasi una provocazione naif, un tentativo di resistere alle costanti stroncature della critica, una sorta di dimostrazione di indipendenza di un artista che non si è mai preoccupato troppo dei giudizi della stampa (nemmeno quando è stato tacciato di misoginia, o financo di sadismo-voyeurismo, principalmente per il trattamento estremamente crudele riservato alle donne in alcuni film). Ma l’evidente vuoto creativo del maestro rappresenta una spina del fianco soprattutto per molti amanti della sua opera, che ormai si consolano unicamente rivedendo a ripetizione le creazioni storiche. Quelle che dovrebbero essere presenti nel repertorio di ogni cinefilo che si rispetti. L’ultimo esperimento di Dario Argento risale ormai ad otto anni fa (ed è stato decisamente da dimenticare). Forse ha deciso di ritirarsi dalle scene, di non rischiare di essere associato dalle nuove generazioni ad opere che non sono all’altezza dei suoi capolavori. Eppure in questo funesto 2020, ottantesima primavera del maestro del brivido che coincide con il cinquantennale della sua carriera, avremmo bisogno di un nuovo sussulto del suo genio. Un suggello della sua straordinaria carriera. Magari di un Sam Mendes/Tony Musante del nuovo millennio. Che trovi la risposta per risolvere l’enigma planetario. E sconfiggere il mostro. Per sempre.

Alessio Fugazzotto

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