L’Innocenza Kore’eda Hirokazu
Regia di Kore'eda Hirokazu. Con Sakura Andô, Eita, Soya Kurokawa, Hinata Hiiragi, Mitsuki Takahata. Titolo internazionale: Monster. Genere Drammatico, - Giappone, 2023, durata 126 minuti. Uscita cinema: 22 agosto 2024 - Distribuito da Bim Distribuzione.
Kore’eda Hirokazu ha ancora molto da raccontare. Lo dimostra all’atto del suo rientro artistico in patria, a un lustro di distanza dalla vetta poetica de “Un affare di famiglia” (Palma d’Oro a Cannes nel 2019), e dopo un paio di tentativi di esportare la sua opera al di fuori dei confini giapponesi: “Le verità” (Francia, 2019) e “Le buone stelle” (Corea del Sud, 2022), due prodotti non pienamente convincenti, ancorché costellati da numerosi elementi di pregio, che avevano insinuato nei critici più intransigenti il dubbio di un incipiente declino creativo. Quello di Kore’eda, però, non si appiattisce in un mero ritorno nella sua comfort zone. Il cineasta sperimenta, per la prima volta nella sua carriera, la rappresentazione di alcuni dei temi più delicati e spinosi della società contemporanea, pur rimanendo all’interno del tradizionale archetipo del dramma familiare. Lui, che da qualche lustro riprende in chiave contemporanea la narrativa del grande Ozu senza apparire presuntuoso. La macchina da presa entra con discrezione negli ambienti domestici che affrontano un elemento di rottura, una perdita da elaborare, una lacerazione difficile da ricomporre, un equilibrio lungi dall’essere ripristinato. Il dolore viene raccontato tramite inquadrature che immortalano le piccole cose della quotidianità, con quegli spazi bianchi che permettono allo spettatore di cogliere l’intensità dei silenzi, degli sguardi, delle parole non dette. Una ferita percepita come profonda anche se non viene trasmessa con le lancinanti grida della drammaturgia occidentale (del resto, Ozu – per sua stessa ammissione – non ha mai avuto l’ottava nota alta). I protagonisti de “L’innocenza” appaiono, sin dalle prime battute, come un sodalizio paradigmatico dell’opera kore’ediana: una mamma, rimasta sola, alle prese con le difficoltà relative alla crescita di un figlio in età puberale. La perdita della figura maritale/paterna si riverbera inevitabilmente nel precario equilibrio familiare. La madre risulta iperprotettiva, quasi ossessiva, e non riesce – a dispetto dei suoi lodevoli sforzi – a comprendere la matrice dei turbamenti del figlio. Non si tratta di un conflitto generazionale stricto sensu, presente in molte opere del cineasta, bensì di un’acuta incapacità di comunicare. Uno iato che conduce il ragazzino a dissimulare il proprio essere, rifugiandosi nelle proiezioni immaginifiche della mente. L’assenza del padre, però, rimane sullo sfondo, come una sorta di McGuffin, e il dramma intraprende traiettorie inedite. Kore’eda analizza la presa di coscienza della sessualità, nonché il pregiudizio, l’emarginazione, il bullismo che ne può derivare, con la disarmante genuinità dello sguardo di un ragazzino: l’ingrediente più adatto per fare breccia nel muro della società giapponese, ancora pregna di conservatorismo.
La narrazione viene strutturata in tre atti, corrispondenti a tre prospettive differenti della realtà fattuale. Un’operazione ispirata al relativismo di pirandelliana memoria, con la quale Kore’eda si era già cimentato – utilizzando una metrica particolare - nella sceneggiatura del thriller “Il terzo delitto” (2017). Un richiamo evidente a un altro gigante del cinema giapponese, al “Rashomon” di Akira Kurosawa che – nel lontano 1950 – smantellava la cortina divisiva tra la Settima Arte nipponica e l’universo occidentale. Lo sguardo del genitore, dell’insegnante, del ragazzino. La verità è densa di sfumature, ma non inafferrabile. A differenza di “Rashomon”, le deposizioni dei protagonisti non risultano faziose, animate dal mero interesse personale, con la conseguente impossibilità di selezionare la testimonianza più attendibile. Ogni versione costituisce un tassello di un puzzle complesso, dove la chiave per l’incastro perfetto risiede nel racconto più genuino: il racconto dell’innocenza. Gli occhi della madre e del maestro sono vistosamente miopi: pur agendo entrambi in buona fede, non dispongono degli strumenti necessari per osservare compiutamente i bisogni di chi li circonda. In primis, come ricorre in numerosi sodalizi familiari targati Kore’eda (Nobody Knows, 2004; Still walking, 2008), i figli dimostrano di saper guardare oltre l’inadeguatezza – più o meno consapevole – dei genitori, appiattiti dalle sovrastrutture e dai retaggi sociali. In secondo luogo, il mondo dell’istruzione non riesce ad elevarsi a punto di riferimento per gli studenti. Kore’eda dipinge la scuola come una fredda istituzione che, al pari di ogni blocco di potere, mira unicamente alla propria autoconservazione, al mantenimento dello status quo, senza un reale interesse per la missione che dovrebbe perseguire (un piccolo accenno alla tematica si trova nel precedente “Kiseki”, 2011).
E così, il protagonista Minato, insieme al suo amichetto Yori, crea un microcosmo inaccessibile per gli adulti. Una valle dell’Eden dove i due ragazzini possono sentirsi liberi di scoprire la più intima essenza delle cose, di trovare i colori della propria anima, senza le perniciose interferenze di una società non ancora pronta per accettarli. Forse, un luogo in cui scongiurare la crescita, un po’ come ne “Il tamburo di latta”, e proseguire la spensierata battaglia contro le carenze dei grandi. E poi arriva la tempesta. La pioggia battente, altro elemento seriale nelle pellicole di Kore’eda, che diventa presagio di un evento destinato a imprimere un segno indelebile (ricordiamo, tra gli altri, l’esordio “Maborosi”, 1995, e “After the storm”, 2016). In questo caso, il diluvio assurge contestualmente a simbolo di perdita e di rinascita: il passaggio a una dimensione dove Minato e Yori possono mantenere intatta la purezza dell’adolescenza. Dove non corrono il rischio di essere additati come mostriciattoli a causa delle proprie debolezze (come avverte il titolo originale “kaibustu”, letteralmente “mostro”). Il film, presentato in concorso al Festival di Cannes del 2023, ottiene il plauso pressoché unanime da parte della critica cinematografica. L’opera, probabilmente destinata a entrare nel Pantheon del cinema orientale, consente di scorgere un ulteriore angolo della mirabile sensibilità di Kore’eda. Bentornato a casa, Hirokazu. Lo scorrere del tempo non sembra aver contaminato la tua innocenza.
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