La Grande Abbuffata – 50esimo Anniversario Marco Ferreri
Regia di Marco Ferreri - 1973 - con Ugo Tognazzi, Michel Piccoli, Marcello Mastroianni, Philippe Noiret, Andréa Ferréol. Titolo originale: La grande bouffe. Genere Commedia, - Italia, Francia, 1973, durata 125 minuti.
50 anni fa usciva nelle sale “La Grande Abbuffata”, la strabordante e impietosa fotografia di una classe sociale soffocata dalla propria opulenza. Di Marco Ferreri, uomo e autore, nel periodo d’attività, si sono dette molte cose. Barbaro provocatore, misogino, anticonformista gratuito: svariati epiteti con cui sono additati gli artisti che si pongono come elemento di rottura delle convenzioni. Gli aggettivi più generosi, come spesso accade, giungono prevalentemente post mortem, quando gli anticorpi sociali abbassano le difese, e favoriscono la riabilitazione di personaggi la cui portata infettiva è ormai tramontata. Negli ultimi anni, a un ventennio di distanza dalla sua prematura scomparsa, Ferreri è stato spesso insignito del titolo di “maestro dimenticato”: tardivo ma opportuno riconoscimento per chi ha pagato con la damnatio memoriae il peccato di non essere mai stato allineato con mode e sistemi di pensiero predigeriti. Infatti, ad onta del suo pregevolissimo repertorio, Marco Ferreri non ha mai goduto degli abbacinanti riflettori che hanno inondato di notorietà molti dei suoi colleghi coevi. Lui, diventato regista per gioco, sempre inviso alla maggioranza, troppo anarchico per amalgamarsi con gli stereotipi di genere che avrebbero favorito una sua adozione nelle minoranze. Eppure, il suo talento cristallino emerge sin dagli esordi. Dal viaggio in terra iberica ove si imbatte in Rafael Azcona, insieme a cui sfida la censura dittatoriale di Francisco Franco a colpi di umorismo grottesco, dando inizio ad uno dei sodalizi più felici e duraturi del Novecento. “El Pisito”, “Los Chicos”, “El Cochecito”: tre titoli per un disarmante quadro di miseria umana che non risparmia alcuna comparsa del secondo dopoguerra (nemmeno i presunti deboli). Poi, il ritorno in patria e la prosecuzione della sua poetica, visionaria e, al contempo, tremendamente realistica e lungimirante. Preconizza l’inesorabile decadenza dell’essere umano (in particolare, del sesso maschile), il collasso di una società alle prese con la corsa al banchetto del boom economico. Marco Ferreri non è un regista politico. È un regista “contro”. Abbaia alla borghesia e ai suoi vezzi, ma non solo. Se proprio è necessario inquadrarlo in una corrente, possiamo definirlo un surrealista. Infatti, grazie agli ingredienti onirici che maneggia in numerose opere, viene talvolta ribattezzato come il Luis Buñuel nostrano. Non è un caso, forse, se la pellicola ferreriana di maggior successo è proprio quella più buñueliana nella narrativa antiborghese.
È il 1973. Buñuel, appena un anno prima, aveva dato alla luce “Il Fascino Discreto Della Borghesia”, che – durante le prime riprese del progetto targato Ferreri – si era aggiudicato la statuetta per il miglior film straniero. Il mondo, sommerso dalle nebbie della Guerra Fredda, è alla mercé della precarietà geopolitica: in varie parti del globo, con particolare riferimento all’America Latina, i detentori del potere economico – terrorizzati dallo spettro della collettivizzazione - favoriscono l’ascesa delle dittature militari. In questo contesto, Ferreri assolda quattro giganti della recitazione: Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Philippe Noiret e Michel Piccoli. Ad ognuno di essi assegna un personaggio - con lo stesso nome dell’attore che lo interpreta – connotato da un elevato ranking sociale: un importante magistrato di nobili discendenze, che unisce nella sua persona il prestigio della casta e la potestà punitiva, un produttore televisivo, espressione del dilagante potere dei media, un rinomato aviatore dongiovanni e uno chef, proprietario di una catena di ristoranti gourmet. Quattro iscritti ad un club elitario ove il successo professionale e il benessere economico non riescono a seppellire l’insostenibile vacuità dell’esistenza.
Dopo aver preso coscienza della propria irreversibile insoddisfazione, i protagonisti concordano un esilio volontario presso una decadente dimora nobiliare, di proprietà di Philippe, illo tempore appartenuta al poeta Boileau. Una villa come prigione e teatro di dissoluzione: Marco Ferreri riprende un’ambientazione sviluppata qualche anno prima ne “L’Angelo Sterminatore” (a firma di Buñuel, ça va sans dire), e – già prima del secondo conflitto mondiale – dall’immortale Jean Renoir ne “La Regola Del Gioco”. Il soggetto sarà di ispirazione, appena un biennio dopo, anche per il disarmante testamento pasoliniano “Salò E Le 120 Giornate Di Sodoma”. L’obbiettivo dei quattro cavalieri - non dichiarato, ma sempre più evidente nel corso del soggiorno - è la distruzione. Una distruzione lucida, deliberata all’interno del consesso. Non serve, in questo caso, una mano invisibile forestiera, come quella che imprigiona e minaccia l’inconsapevole superficialità degli astanti nelle previe opere buñueliane e renoiriane. Un annientamento del sé, e non dell’altro, come quello perpetrato dai potenti – nell’estremo tentativo di preservare le proprie attribuzioni – nel successivo lavoro pasoliniano. Come realizzare il cupio dissolvi? Mangiando. Consumando manicaretti prelibati fino all’esplosione corporea. Annegando nell’abbondanza e nello sperpero di cui sono sempre stati portavoce. Il paradosso del cibo: elemento vitale, agognata fonte di sopravvivenza per chi non ha accesso alle risorse, e arma di (auto)estinzione per gli oligarchi.
Così, i protagonisti inaugurano l’apocaliss culinaria. Un soggiorno all’insegna degli istinti primordiali, nel quale conta unicamente soddisfare (fino all’esiziale sazietà) i bisogni primari dell’essere umano. Mangiare, bere, dormire, orinare, defecare, e fare sesso. Per assecondare gli appetiti carnali il gruppo attinge alla prostituzione, e beneficia altresì dei favori di un’insegnante giunta alla residenza per finalità didattiche. Quest’ultima - interpretata da un’emergente Andréa Ferréol - subodorando il disegno mortale in atto, assume le vesti di Acheronte. A mezza via tra una crocerossina e una giustiziera, decide di aiutare i quadriumviri nella più eccitante realizzazione del macabro piano. L’accoglienza della pellicola è fedele all’essenza controversa di Marco Ferreri. Presentato al Festival di Cannes, la prima visione stimola una bordata di fischi da parte di una platea poco indulgente verso gli eccessi disturbanti. A dispetto dell’infelice esordio, la pellicola riesce ad aggiudicarsi l’importante Premio Fipresci nel festival transalpino. Buona parte della critica degli anni Settanta non esita a demolire il film, accusato di estremizzare il messaggio antiborghese per mezzo di una gratuita volgarità: sotto torchio, in particolare, il sadismo e il voyeurismo che permeano alcune scene di sesso sfrenato, nonché le sequenze di stampo scatologico che enfatizzano le scorie dell’essere umano. Inoltre, l’opera viene additata come superflua nel percorso artistico del regista: infatti, il tema della dissoluzione dell’uomo capitalista viene trattata, con una grammatica più moderata, nel precedente “Dillinger È Morto”. La censura, inevitabilmente, cala la mannaia su una significativa parte della pellicola (la versione integrale esce unicamente nell’anno 2023). D’altra parte, frammenti del mondo intellettuale (e, in particolare, alcuni colleghi di Marco Ferreri) elogiano la potenza immaginifica del film. Le mirabili, soffocanti, inquadrature sugli interni pacchiani, invero, tramettono alla perfezione l’irrespirabilità della condizione umana. “La Grande Abbuffata”, nel corso dei decenni, viene progressivamente rivalutato, pur mantenendo quella nube di dannazione per cui appare sconveniente parlarne troppo spesso.
La sensazione, per chi vive l’era contemporanea, è che l’opera ferreriana – pur figlia del lontano periodo delle grandi contestazioni - sia ancora tremendamente attuale nella sua vis ecologista e anticonsumistica. In una comunità sempre più viziata dagli sprechi e dalle disuguaglianze sociali, con lo spauracchio dell’inquinamento atmosferico che incombe (proprio in questi giorni si parla tanto della Cop28 sui cambiamenti climatici), la dimora di Philippe potrebbe tornare in auge, cloaca postmoderna ove smaltire le abitudini e i vessilli perniciosi. Una novella pars destruens delle patologie sociali. E questa volta, magari, anche come eventuale punto di ripartenza verso orizzonti più rosei. Quegli orizzonti che quel geniaccio nichilista di Marco Ferreri non è mai riuscito a scorgere.
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