L’affido – Una storia di violenza (Jusqu’à la garde) Xavier Legrand
Cast: Denis Ménochet, Léa Drucker, Thomas Gioria, Mathilde Auneveux, Mathieu Saikaly, Saadia Bentaïeb, Jenny Bellay - Durata: 90 minuti. - Distribuzione italiana: Nomad Film, P.F.A. Films
Perché per conoscere la verità si ha davvero bisogno di andare sino in fondo? Perché non vogliamo arrenderci prima, ed evitare così di farci del male? Dietro la singola vicenda narrata, il pur importante tema della famiglia, l’attualità dei ripetuti casi di donne che non trovano riparo dalla violenza dei loro compagni, dietro tutto questo nel film di Xavier Legrand c’è una domanda ancor più radicale e universale. Una domanda trascendentale sulla verità e sull’evidenza. Il titolo francese la svela meglio di quello italiano: “Jusqu'à la garde”, un’espressione che fa pensare all’arma per eccellenza, il coltello, conficcato sino al manico, sino al fondo. In francese la si usa per dire “andare dritto, sino in fondo” ad una questione. Ma la “garde” è anche la custodia, l’affido per l’appunto. Un doppio senso che si perde nel titolo internazionale “Custody” e nell’italiano “L’affido”, appesantito dal didascalico “una storia di violenza”.
La trama
In questo caso è l’affido di un minore tra due genitori separati. In gioco - la verità da scoprire - è cosa ne è stato della loro famiglia. Il film parte dal punto di massima rottura: una donna che arriva persino a nascondere il proprio domicilio per evitare il marito. I figli vivono con lei e del padre hanno solo paura, e lo chiamano “quello”. Siamo dinanzi ad un giudice donna, marito e moglie difesi da avvocati donna. L’unico uomo, quello sotto accusa, è il marito. Tutto sembra andare contro di lui, ma mancano le prove e la sua avvocata lo presenta come vittima, non convincendo la giudice, che però dovrà attenersi ai fatti, come Legge vuole. Così il padre otterrà l’affido alternato e sino a quando lui non troverà casa, ottiene il weekend alternato. Ne basteranno due a far evolvere la vicenda oltre le apparenze. Perché lentamente inizieremo a pensare che dietro le brutte maniere del marito ci siano delle ragioni molto valide. La verità, invece, è che quando un uomo non accetta una separazione c’è qualcosa di tragico sotto, ed è la storia di quasi tutti i femminicidi. Ci fermiamo qui per lasciare il gusto allo spettatore di seguire, non tanto la vicenda quanto la meticolosa ricostruzione degli umori più sottili che albergano volti, corpi e gesti dei protagonisti. C’è di che sorprendersi.
La regia e gli attori
Quello che emerge è la qualità della messa in scena. Il film è l’opera prima del regista Xavier Legrand, non più giovane, che si era fatto notare nel 2013 solo per il suo primo e unico cortometraggio, ”Avant que de tout perdre”, candidato agli Oscar e vincitore in Francia del César, l’equivalente del nostro David di Donatello. Il corto era l’antefatto di questo film, con la stessa coppia di personaggi e attori, Miriam (Léa Drucker, nella foto) e Antoine (Denis Ménochet), dove lei è in fuga con i suoi due figli dal marito “prima di perdere tutto”. Una meticolosità nel lavoro attoriale dove è evidente il patto con i due attori principali di mettere la loro arte al servizio dell’insieme, riuscendo loro a fare da spalla agli altri, con incredibili sottolineature, senza primeggiare mai. Dal giudice (Saadia Bentaïeb) alla vicina di casa (Jenny Bellay), entrambe con pochi minuti nel film, al bambino (Thomas Gioria, nella foto sotto a destra) che è invece uno dei protagonisti, alla sorella maggiorenne (Mathilde Auneveux) e suoi amici (in primis il fidanzato, Mathieu Saikaly), tutti sono stati scelti perché apparissero veri e la loro direzione è magistrale. L’attenzione ai gesti, la capacità di farli avvertire ancor prima che si manifestino (il semplice gesto della cintura di sicurezza in auto, reiterato con la giusta misura e usato per descrivere i passaggi “sentimentali” più sottili, tra padre e figlio). Non stupisce che Xavier Leogrand venga dalla più prestigiosa scuola di recitazione francese, il Conservatoire National Supérieur d'Art Dramatique di Parigi, oltre che da un’importante pratica teatrale. Cosa sufficiente a smentire chi pensa che fare teatro voglia dire non saper recitare a cinema. Legrand al cinema ci arriva tardi, avendo iniziato solo nel 2005 a collaborare con Philippe Garrel, una figura chiave del cinema francese e non solo, figlio di noti attori, personaggio di punta del maggio francese, uomo legato sentimentalmente alla cantante Nico a cui dedica un film dopo la loro separazione. Leogrand lo incontra per uno dei suoi film più premiati e amati dal pubblico “Les amants réguliers” (proiettato a suo tempo con successo anche al Cinema Armenise di Bari per il Cineclub dei Recidivi).
La lezione “bressoniana”
Sarebbe però un torto insistere solo sulla straordinaria qualità delle interpretazioni attoriali. Passato dietro la macchina da presa Xavier Legrand dimostra un’economia che ricorda il grande autore francese, maestro in questo per eccellenza, Robert Bresson. Spesso un’intera scena viene risolta con una sola inquadratura. E il punto di vista di questa è scelto con cura, sempre nella filosofia “bressoniana” della massima economia. Per esempio, spiando i piedi della figlia maggiorenne da sotto l’uscio di una porta del bagno scolastico: la ragazza che armeggia qualcosa, una scatola lasciata cadere tra i piedi, intuiamo sia una prova di gravidanza, si serve del wc e poi piange e chiama il fidanzato. Opere prime di registi così “fermi” ne nascono raramente. Nessuna tentazione di formalismi inutili. Se c’è da correre la macchina da presa corre, ma solo se necessario (per esempio quando il bambino scappa inseguito dal padre, Denis Ménochet, nella foto).
Inoltre, come sarebbe piaciuto a Bresson, lo statuto dello spettatore è ampiamente rispettato. Il film non lo annoia, lo tiene in tensione, sino a momenti di suspense degni di Hitchcock. In particolare nel climax, la tensione è tale che lo spettatore è portato ad anticipare continuamente, per la paura, l’evolversi drammatico degli eventi. Iniziamo a fare attenzione ai suoni più lievi, e se Miriam si alza di soprassalto perché teme qualcosa, noi lo stavamo già pensando prima di lei. Ancora più egregio il finale. La vicina che spia quanto accaduto nell’appartamento di fronte, la poliziotta che chiude la porta per riservatezza, la vicina che chiude anche lei la porta e tutto si fa buio. Solo il lieve ticchettio di un orologio, prima che partano sul nero i titoli di coda. Peccato che sia stata quella vicina a salvarle la vita, ma la vita non abita i “luoghi terzi” della nostra città. Non c’è incontro e le famiglie sono isole senza salvezza.
I premi e la distribuzione
Premiato un anno fa alla Mostra Internazionale dell’Arte Cinematografica di Venezia come migliore regia (nella foto Xavier Legrand), e anche come migliore opera prima, il film arriva in ritardo di un anno e in piena stagione estiva nelle sale italiane. La qualità de “L'Affido” è sicuramente nelle interpretazioni e nel realismo di tutta la messa in scena, ma ancor di più nei punti di vista della macchina da presa, cosi solidi e semplici, da lasciarci con delle domande tragiche. È finita, abbiamo sconfitto il male, ma sappiamo tutti che non è vero. Non può finire, e forse dovremmo quindi prendere posizione. Quello che il cinema italiano quasi mai sa fare, specie se “a casa tutti bene” e restiamo pur sempre in famiglia.
Commenti →