Il Sacrificio del Cervo Sacro (The Killing of a Sacred Deer) Yorgos Lanthimos
Genere: Drammatico, Thriller - Sceneggiatura: Efthymis Filippou - Cast: Colin Farrell, Nicole Kidman, Barry Keoghan, Raffey Cassidy, Sunny Suljic - Durata: 109 minuti - Distribuzione: Lucky Red
Il titolo del film, “Il Sacrificio del Cervo Sacro” (fedele a quello originale in inglese), è la prima traccia di una grave mancanza verso lo spettatore: non ce n’è spiegazione nel film, cosa che può essere un’ottima sfida per costruire un rapporto con chi lo guarda, ma manca ogni tentativo di evocarne la suggestione. Le uniche due tracce sono inserite senza maestria nei dialoghi, facendo riferimento alla tragedia di Euripide “Ifigenia in Aulide”. Lo spettatore dovrebbe ricordarsi (ammesso che ne sia a conoscenza per studio o diletto) che la dea della caccia Artemide, quando il re Agamennone le dona in sacrificio la figlia Ifigenia, mossa da pietà la salva sostituendola con un cervo; era stata l’uccisione di un Cervo Sacro la ragione della sua rabbia e della pretesa che Agamennone le sacrificasse la figlia. Questo dovrebbe bastare a spiegare il titolo e, vedendo il film, a trovarne il senso, ma è anche esemplificativo delle lacune di quest’ultimo film, non privo di qualità, di Yorgos Lanthimos: non saranno certo le sue origini greche, né tantomeno quelle dello sceneggiatore Efthymis Filippou, a giustificarle. A mancare, infatti, è proprio la misura del tragico, il cuore della cultura greca antica. Da tempo il cinema greco non ci regalava nuovi autori internazionali, e questa coppia si era affermata con due film di coproduzione europea, “Alps” (2011), e “The Lobster” (2015), quest’ultimo con attore protagonista lo stesso Colin Farrell che ritroviamo qui nel ruolo principale.
La trama
Farrell (foto a destra) interpreta il ruolo di un cardiochirurgo dalla vita molto regolare e noiosa, sposato con un’oftalmologa interpretata da Nicole Kidman (foto a sinistra) e con due figli, l’una più grande e l’altro ancora bambino. A disturbare questo quadro familiare è il rapporto poco normale del cardiochirurgo con un ragazzo, Martin (interpretato da Barry Keoghan) poco più grande della figlia. I due s’incontrano regolarmente, lui gli fa dei regali anche molto costosi, c’è poca confidenza tra loro e il ragazzo con fatica cerca di dimostrargli il suo affetto e di instaurare con lui un rapporto sostitutivo di quello che aveva con il padre. Scopriamo presto che il padre è morto sotto i ferri del nostro protagonista e sarà questo lo spunto di avvio per una vicenda che non riuscirà a trovare alcun registro drammaturgico, lasciando lo spettatore inerme di fronte a sviluppi non tanto improbabili, quanto privi di valore significante. Dopo aver creato una tensione da thriller, dove Martin risulta essere la figura chiave del carnefice, il film sembra voler virare verso l’horror, ed occorre dire che trova sempre lo sguardo giusto, mancando però di coraggio nella messa in scena. Il momento migliore ce lo regala Martin nello strapparsi un pezzo di carne a morsi, ma è solo merito dell’ottima interpretazione di Keoghan; viceversa, sono deboli i momenti alla “Freaks” con i ragazzi ormai senza uso delle gambe che strisciano per terra, trascinandosi con le mani.
La sceneggiatura
Paradossale che sia proprio nella sceneggiatura premiata a Cannes nel 2017, come già quella di “Alps” anni fa a Venezia, che il film ha il suo punto debole: ma forse indicativo di una tendenza, sempre più marcata nei Festival glamour di cinema, a premiare presunte “qualità”, dimostrative di un’aurea autoriale. Non mancano per fortuna autori ben armati contro queste “politiche di marketing” e costruzione di prodotti per “pubblico da Festival”. Disarmata ci appare invece la coppia Yorgos Lanthimos (nella foto) - Efthymis Filippou. A conferma di ciò il film è anche la loro prima coproduzione statunitense, e viene da credere che ancora una volta Hollywood non sappia reagire alla sua crisi. Un tempo inseguiva la qualità con produzioni sfarzose, e dovette soccombere sotto guerre stellari e squali dei “cattivi ragazzi” (Spielberg, Lucas, Coppola, Scorsese), oggi insegue l’autorialità da festival, il film alla Kubrick, alla Malick, alla Haneke. E la critica da Festival risponde fedele.
Gli attori
Oltre alla sceneggiatura, l’altro punto debole ma volutamente connotativo di una volontà di algida messa in scena è la direzione degli attori, dove nonostante alcuni dialoghi riesce al meglio solo l’irlandese Barry Keoghan (nella foto): la sua migliore interpretazione rimane quella nel 2016 di “Mammal”, film che lo fece scoprire al Sundance, e poi a Rotterdam. Dopo la sua interpretazione in “Dunkirk” prende numerosi premi per il ruolo di Martin, come attore non protagonista. E sono premi meritati, nonostante alcuni dialoghi rasentino il ridicolo (la limonata della mamma, gli spaghetti come papà). Più di maniera quella di Raffey Cassidy (foto a destra), la figlia del cardiochirurgo, che non riesce a smarcarsi dall’aurea disneyland, ma ci regala uno dei momenti più belli del film quando canta Burn di Ellie Goulding con sola voce e appoggiata ad un albero, come un solo corpo. Una canzone che può suonare come un invito al sacrificio e con esso alla rigenerazione. Anche in questo caso il didascalismo non manca, ripetendo spesso la ragazza di avere avuto le prime mestruazioni. Del tutto non pervenuta è invece Nicole Kidman, tra simulazioni di rapporti necrofili o primi piani senza gloria mentre masturba un collega del marito per strappargli qualche rivelazione sul caso del paziente morto.
La colonna sonora - La regia - Conclusioni
Luce, composizione, scenari e design del suono non bastano a salvare il film. Ricca la colonna sonora di musica classica: bellissimo l’inizio con lo “Stabat Mater” di Schubert sul nero e poi su un cuore aperto, meno convincente l’uso di musica concreta, del “Cello Concerto” di Ligeti insieme a Bach e Pfitzner, tranne poi inserire una sdolcinata canzone di Ellie Goulding. Lo spettatore si chiederà per tutto il tempo di quale potere goda Martin, o quale artificio sia riuscito a mettere in piedi per provocare tanto inspiegabile orrore. Non vi troverà per fortuna risposta, perché la domanda non sarebbe dovuta nemmeno nascere. Con essa si manca l’unico senso faticosamente cercato dal film: l’ineluttabilità di un Destino fondato su una legge che non conosce pietà per l’individuo, quella dell’equilibrio e del sacrificio necessario a ri-generarlo. Martin non può essere usato come figura sostitutiva degli dei, e nemmeno si tenta di farne a sua volta un oracolo involontario dominato dal destino, o dagli dei, o messaggero di un Dio crudele quale quello di Abramo. La scelta anti-naturalistica del regista Yorgos Lanthimos non viene accompagnata da una scrittura a lei funzionale, con l’esito non solo di irritare lo spettatore ma di non dargli alcuna chiave di lettura. Rinunciando a essere inutilmente letterari, e servendosi al meglio del “genere”, avremmo avuto un film di grande forza, capace di denunciare un mondo dove i figli devono pagare le colpe dei padri, e questi lo pensano anche giusto e necessario. Un’occasione mancata.
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