Addio A David Lynch, Il Surrealista Inafferrabile David Lynch
Scrivere sulla poetica di David Lynch costituisce, di per sé, un atto di presunzione. D’altra parte, astenersi da un omaggio alla sua memoria denoterebbe una profonda ingratitudine. Elogio della follia: quella lucida visionarietà che travolge molte regole del linguaggio cinematografico. Lui, uno dei più originali, anarchici e imperscrutabili autori della Settima Arte. Uno dei più grandi rivoluzionari contemporanei. L’animo ribelle del regista emerge sin dagli esordi. Correva l’anno 1968 quando viene realizzato il cortometraggio “The Alphabet”, la sconvolgente denuncia contro l’inquinamento della mente umana perpetrato dalle imposizioni sociali (sì, a partire dalle lettere dell’alfabeto). Una sfida aperta alle leggi narrative precostituite. David Lynch potrebbe essere considerato un surrealista, per quanto sia impensabile inquadrare l’autore all’interno di una categoria. Dai grandi maestri come Luis Buñuel e Salvador Dalì eredita l’abilità di scomporre la realtà in mille frammenti, provocando allo spettatore il dubbio sulle percezioni visive. Un invito a varcare l’orizzonte sensoriale, a non fidarsi dello sguardo traditore: il cinema va oltre, come suggerisce il taglio dell’occhio nel buñueliano “Un chien andalou”. La poetica lynchiana non è un mero strumento di critica sociale. È soprattutto una proiezione dell’inconscio, delle paure più recondite, dei demoni. L’arte diventa un viaggio freudiano, un’occasione unica per scendere negli abissi dell’io. Il regista affianca magistralmente il brutale dipinto della provincia americana a un’indagine sugli oscuri recessi dell’animo umano. Le zone d’ombre presenti in ognuno di noi, che suscitano terrore e negazione, con le quali rifiutiamo di dialogare. Il percorso del regista americano non è agevole: una strada lastricata dalla diffidenza che le major e la critica riservano ai personaggi fuori dagli schemi. Nel 1977, dopo mille difficoltà, riesce a dare alla luce il suo primo lungometraggio, “The Eraserhead”. Debutta con l’opera più intima e autobiografica: la confessione di uno studente trentenne, diviso tra la precarietà economica e l’angoscia di fronte a una paternità per cui non si sente all’altezza. Nel profilo scarmigliato e allucinato di Henry, protagonista dell’opera, sono riscontrabili le inquietudini di un giovane Lynch nell’odiata Philadelphia degli anni Settanta. “The Eraserhead” è un viaggio oscuro e misterioso nei labirinti della mente, interamente in bianco e nero, in perenne bilico tra onirismo e risveglio, connotato da tutti gli ingredienti della grammatica lynchiana. I legami disfunzionali e le pressioni sociali generano creature indesiderate, mostruose nella proiezione di chi le concepisce. L’inadeguatezza porta al desiderio di cancellazione della realtà circostante, nella brama di dissoluzione del sé. Il film, nel corso degli anni, diventa un vero e proprio cult, oggetto di studi approfonditi e di numerosi richiami in altre opere autoriali. Tre anni dopo, grazie alla produzione dell’amico Mel Brooks, Lynch realizza “The Elephant Man”, la sontuosa biografia di un freak in un mondo di squali. Un uomo deforme con il solo desiderio di una vita normale, stritolato dalla spietatezza di una società costruita per speculare sui deboli. La pellicola rivela al mondo il talento del regista, e diventa il trampolino di lancio per la carriera di Anthony Hopkins. Riceve otto candidature agli Oscar, ma non si aggiudica alcun premio. Vari artisti, capitanati da Mel Brooks, sollevano critiche all’Academy per il digiuno di vittorie: sotto accusa, in particolare, l’assegnazione della statuetta per il miglior film al pur valido “Gente Comune” (considerata dagli appassionati una delle maggiori ingiustizie della rassegna hollywoodiana). Nel 1984 il regista, in seguito all’incontro con Aurelio De Laurentiis, abbraccia la grande produzione per il suo film meno lynchiano.
Nasce così “Dune”, il primo lungometraggio a colori, l’opera con ambizioni da kolossal di fantascienza. Il montaggio è logorato dagli accessi contrasti con la direzione dei lavori. La pellicola viene distribuita in versione ridotta, mutilata da pregnanti tagli che ne snaturano l’essenza, e finanche disconosciuta dall’artista (viene utilizzato lo pseudonimo Alan Smithee). Un clamoroso fiasco al botteghino e le feroci stilettate della critica seppelliscono un prodotto che viene riscoperto soltanto a distanza di svariati lustri. Lynch si ritrova sull’orlo del fallimento e in balia di un’incipiente depressione. Ma il genio riesce a uscire dal tunnel.
Soltanto due anni più tardi ritrova la sua natura, e con mezzi limitati partorisce “Velluto Blu”, uno dei suoi massimi capolavori. Il volto angelicato della superficie americana dissimula la sanguinaria brutalità del sottosuolo. Un orecchio mozzato funge da delirante collante tra le due dimensioni. Il film, pietra miliare degli anni Ottanta, regala a David Lynch la musa Isabella Rossellini, e suggella il primo atto del fortunato sodalizio tra l’autore e il musicista Angelo Badalamenti.
Nel 1990 Lynch riceve uno dei più importanti riconoscimenti della carriera: si aggiudica la Palma d’Oro al Festival di Cannes con il road movie “Cuore Selvaggio”. La bizzarra fuga di due amanti quasi shakespeariani viene raccontata sullo sfondo di una società sempre più ostaggio della depravazione. L’opera – in bilico tra commedia, grottesco e thriller – travolge lo spettatore con i suoi eccessi corrosivi, la violenza gratuita e le accese caricature della cultura popolare americana. In qualche passaggio, forse, costituisce un antesignano del filone pulp, che qualche anno dopo troverà in Quentin Tarantino il più autorevole esponente. La pellicola (non la più convincente della filmografia lynchiana) deve la sua affermazione nella rassegna transalpina a Bernardo Bertolucci, presidente della giuria, notoriamente poco amante dei limiti artistici. Dopo aver conquistato il grande schermo, Lynch decide di riscrivere il linguaggio della televisione a stelle e strisce.
Firma “I Segreti Di Twin Peaks”, il lavoro che ribalta il concetto di serialità, tradizionalmente legato agli episodi autonomi del telefilm o agli intrecci sentimentali della soap opera. Una grammatica altamente cinematografica, utilizzata nell’arco di tre stagioni, segna l’anno zero nella storia delle serie tv. Si tratta di una narrazione autoriale del tutto inedita negli Stati Uniti (il vecchio continente, invero, aveva già scoperto qualche pregevole adattamento, pur temporalmente circoscritto, grazie a Ingmar Bergman e Rainer Werner Fassbinder). Il borgo di Twin Peaks entra prepotentemente nel panorama degli anni Novanta con gli elementi tipici dell’arte lynchiana: una cittadina di provincia animata da personalità borderline, la corruzione dietro i lineamenti insospettabili, l’inquietudine sul filo sottile che separa sogno e realtà (non a caso, la località immaginaria si trova in territorio di confine).
Nel 1992 esce nelle sale un prequel della prima stagione, “Fuoco Cammina Con Me”, non eccessivamente fortunato. L’anno 1997 vede la nascita della trilogia dell’onirico: “Strade Perdute”, “Mulholland Drive” (2001), “Inland Empire” (2006), tre titoli particolarmente amati dagli aficionados del regista.
Un’angosciante indagine psicologica che si colloca al di fuori di ogni architettura. Il tema del doppio al centro della scena: gli inganni (o autoinganni) della mente provocano una dissociazione, una sostituzione con l’altro, rendendo indefinibile il perimetro dell’esistenza. Forse siamo al cospetto di una recita, di una maschera dell’inconscio, o forse no. Trovare il bandolo della matassa è un’impresa ardua e, probabilmente, non è importante la quadratura del cerchio: ciò che conta è la navigazione nel tumultuoso abisso della psiche. “Mulholland Drive”, il prodotto più acclamato del trittico, viene selezionato da un’ampia fetta della critica come migliore film del XXI secolo.
Nel 1999 la trilogia viene momentaneamente interrotta dalla delicata avventura di Alvin Straight ne “Una Storia Vera”. Un vecchietto dai caratteri squisitamente lynchiani, benché incredibilmente reale, attraversa gli States a bordo di un trattore per giungere al capezzale del fratello. L’America rurale, in questo caso, viene raccontata con semplicità dagli occhi del protagonista, e dalle persone nelle quali si imbatte lungo la strada. Un cammino interiore differente, scevro di risvolti onirici, che denota la profonda sensibilità di David Lynch anche all’interno di una linearità narrativa. Negli ultimi anni il regista abbandona il grande schermo, e limita le incursioni artistiche ad alcuni prodotti televisivi. Degno di nota, in particolare, il sequel della serie “I Segreti Di Twin Peaks”, datato 2017. Il parziale ritiro dalle scene consente a Lynch di dedicarsi all’amata meditazione trascendentale, con la quale prova ad allontanare la negatività, l’inquinamento dell’anima, ogni elemento nocivo per l’essere umano: quella corruzione che ha sempre provato ad esorcizzare con le sue opere. Fino a quando un male ineluttabile decide di portarlo via. Chissà, se la realtà non è altro che un puzzle dagli incastri inafferrabili, se le percezioni sensoriali sono ingannevoli, se la linea che divide l’essenza dalla finzione è estremamente labile, forse stiamo solo affrontando un viaggio nei meandri di un incubo. E un giorno ci sveglieremo, riabbracciando un mondo in cui David Lynch è ancora lì, pronto a stupire con il suo genio inarrivabile.
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