Cesare deve morire Paolo e Vittorio Taviani
Regia di Paolo e Vittorio Taviani. Con: Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti, Vittorio Parrella, Rosario Majorana, Vincenzo Gallo, Gennaro Solito, Francesco Carusone. Nazione: Italia Durata: 76 min. Uscita: 2 marzo 2012, Distribuzione: Sacher.
"Cesare deve morire", ultimo film dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, premiato con l’Orso d’oro come miglior film nell’edizione 2012 del Festival del cinema di Berlino, colpisce innanzitutto per la forza delle immagini. Il film prende spunto dal laboratorio che il regista teatrale Fabio Cavalli allestisce ogni anno nel carcere romano di Rebibbia, coinvolgendo i detenuti della sezione di massima sicurezza. Il film segue questa particolare compagnia teatrale nella preparazione della messa in scena del Giulio Cesare di William Shakespeare. Ma il film è molto più di un semplice documento filmato di vita carceraria, o di un documentario sul teatro (shakespeareano, ma non solo) utilizzato come mezzo di “redenzione” di un’umanità difficile.
La forza delle immagini irrompe da subito sullo schermo, fin da quei primi piani degli attori-carcerati, presentati da una didascalia che ne indica, oltre al nome, il reato per cui si trovano in carcere (si va dallo spaccio di stupefacenti ai reati di criminalità organizzata) e soprattutto la durata della pena, che nella maggior parte dei casi è indicata con un terribile “fine pena: mai”. Le immagini dei fratelli Taviani diventano un’allegoria di un’esistenza alternativa, di una vita condotta e reiterata in uno spazio chiuso, da cui è impossibile uscire. Una riflessione sul tempo del carcere, un tempo che scorre in maniera diversa rispetto all’esterno, in cui si inserisce il teatro, che, pur non intaccando questa temporalità autonoma (al regista che sollecita gli attori durante le prove uno di essi risponde 'abbiamo tutto il tempo') trasforma lo spazio del carcere (e del carcere tutto, non solo del palcoscenico del teatro interno all’edificio) in spazio teatrale, spazio “aperto” in contrasto netto con la struttura di massima sicurezza che racchiude i movimenti degli attori, che viene trasformata in scenografia ambientale dell’opera.
Azzeccata intuizione è, infatti, quella di non concentrarsi sull’allestimento teatrale concretamente messo in scena e rappresentato dai detenuti, alcune immagini del quale sono inserite (filmate a colori) dai registi in apertura e chiusura del film, ma di concentrarsi sui sei mesi di preparazione dell’opera, e soprattutto di trasformare in sceneggiatura (cioè compiendo uno scarto del punto di vista che tramuta il documentario in fiction) le prove dello spettacolo. Al laboratorio teatrale, dunque, si affianca una sorta di sottinteso laboratorio cinematografico, che genera una sovrapposizione di piani narrativi: il teatro diventa soggetto del film, l’azione scenica si sposta dal palcoscenico agli ambienti del carcere (le celle, i cortili, i corridoi...) e gli attori (teatrali) impegnati nelle prove della rappresentazione allo stesso tempo diventano gli attori (cinematografici) che recitano il Giulio Ceasare per un altro pubblico, un pubblico che, per assistere allo spettacolo, non sarà costretto a varcare le enormi porte d’acciaio che separano i due mondi, quello carcerario e quello così detto libero.
Tutta questa sezione del film (che è poi la maggior parte) è filmata in un bianco e nero magistrale (era dai tempi della fotografia di Luca Bigazzi per i film di Ciprì e Maresco che non si vedeva, in un film italiano, un bianco e nero così emozionante); la macchina da presa è usata in maniera profondamente “poetica” (non perché offre “belle immagini” ma perché ragiona sul cinema attraverso il suo uso particolare), le ottiche giocano con la luce e dipingono sullo schermo una fotografia (di Simone Zampagni) dal contrasto netto, con effetti di sovraesposizione e bruciatura che ricordano da vicino gli esperimenti fotografici (e la forza) di un fotografo come Mario Giacomelli. I detenuti mettono in scena le parti principali della tragedia shakespeariana con le battute recitate nei dialetti d’origine degli attori, in modo tale da essere più naturali e schiette.
Sentire i versi del poeta pronunciati in napoletano, siciliano o romanesco rende l’effetto della rappresentazione non solo più icastico e “realista”, ma restituisce appieno il senso di penetrazione negli animi degli attori delle parole dei personaggi, evocando una sorta di scambio simbolico tra la poesia e la realtà. Gli spazi del carcere vengono trasformati in scenografie “naturali” molto più evocative di una qualsiasi quinta teatrale; scene come quella dell’assassinio di Cesare, rappresentata in un piccolo cortile circondato da alti muri e controllato da una torretta presidiata da guardie, col contrasto nettissimo tra il bianco sporco delle pareti e i costumi neri degli attori, colpiscono per intensità e resa cinematografica. Lo scontro tra la pregnanza significante di quegli ambienti e le parole nuove e inedite per un posto del genere (ma che vi si adattano con stupefacente naturalezza), arricchisce di un surplus emotivo le già potentissime battute del dramma, che si ritrova ad essere come incapsulato in una situazione spaziale (e di conseguenza culturale) che è essa stessa (luogo della) tragedia.
Così come l’altra scena-simbolo del Giulio Cesare, i monologhi consecutivi di Bruto e di Marco Antonio durante il funerale del condottiero, sono messi in scena in un ambiente apparentemente aperto (un grosso piazzale, circondato dagli edifici), in cui il “popolo romano” è interpretato da decine di detenuti affacciati alle finestre protette dalle grate, in un sovrapporsi di voci, suoni ed immagini (e ancora una volta tutto fotografato stupendamente), che gonfia di un furore epico il minimalismo degli spazi. Ma l’esperienza registica dei Taviani non è solo una questione di messa in scena o di fotografia, è soprattutto una questione di tecnica cinematografica e narrativa. Un solo ed efficace esempio: il falso campo/contro-campo degli attori che provano le battute della tragedia, apparentemente uno di fronte l’altro, in realtà ognuno rinchiuso nella propria cella, rivela in modo definitivo l’eccezionalità del luogo della messa in scena, e la sapienza dei registi nello sfruttarlo cinematograficamente. L’opera rappresentata poi, il Giulio Cesare, tragedia dell’onore e della libertà, è particolarmente efficace in una situazione come quella carceraria in cui l’adattabilità del testo shakespeareano (al di là di una banale questione su una pretesa “universalità” delle opere del Bardo) si fonde coi ricordi di vita di persone nella maggior parte dei casi destinate a passare all’interno di quelle mura quanto resta delle proprie vite.
Il risultato è allo stesso tempo asciutto e commovente, ma la forza del film dei Taviani sta nel non far scadere mai la commozione nel pietismo (non c’è traccia di compatimento o di vittimizzazione dei detenuti), e gli sporadici eccessi di retorica (una certa speranza in una funzione se non salvifica quanto meno “consolante” del teatro), inevitabili in un film del genere, non scardinano la poetica, ma soprattutto la politica, del film; sembrano piuttosto fare da contrappunto ad una situazione aliena, offrendo forse un punto di vista esterno alla vicenda, che però non va mai ad interferire con quanto succede all’interno (del carcere, e del film stesso), e più di tutto non aggiungono un facile effetto melodrammatico ad una situazione che comunica il proprio dramma al di là della retorica stessa. È un film che pur essendo chiuso in un luogo inaccessibile e da cui non è facile uscire sfonda metaforicamente molte pareti, sia cinematografiche (lo scambio tra fiction e non-fiction) che emotive: un’apertura provvisoria di un mondo sfiorato dall’arte ma destinato a richiudersi presto dietro una pesante porta blindata.
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