Ultrasuoni Festival 1^ Edizione: The Orb – Echo and the Bunnymen Ultrasuoni Festival 1^ Edizione: The Orb - Echo and the Bunnymen 12-13 Ottobre 2012, Roma, Zona Pigneto, Circolo degli Artisti
L’Ultrasuoni Festival è stato concepito come finestra alternativa su un panorama espressivo e musicale che generalmente rimane in ombra e su cui non esiste un canale di richiamo e di divulgazione in grado di portare il fenomeno sotto i riflettori di quell’attenzione mediatica che vada oltre la piccola cerchia di aficionados specifici e settoriali. Da quest’anno ha preso il via la sua prima edizione che, nemmeno a farlo apposta, ha eletto il quartiere Pigneto, come sua sede di accoglienza. Certamente una scelta intuitiva dal momento che da qualche anno a questa parte la zona è diventata fulcro attivo e meta privilegiata delle nuove generazioni attratte da fenomeni sotterranei e alternativi. Locali elitari come il Circolo degli Artisti, l’Init Club, il piccolo pub Alvarado Street, il nuovo salotto per gli artisti Hula Hoop Club, tutti allineati in fedele ‘Pigneto Style’, hanno sempre dato spazio ai fermenti della cultura underground, ospitando eventi sempre più esclusivi e di successo, diventando vitale punto di scambio e fucina interattiva delle realtà nascoste più interessanti e innovative. Il cartellone della due giorni ha sfoderato nomi esclusivi e autorevoli come, tra gli altri: Fujiya & Miyagi, Dz Deathrays, Mushy, Bob Corn, Hanne Hukkelberg, Der Noir, Mushroom’s Patience. La risposta del pubblico è stata reattiva e forse sopra ogni più rosea previsione. Unica grande pecca organizzativa è stata quella di proporre una prevendita per l’intero evento a prezzo unico. Penalizzante per coloro che potevano essere presenti ad un concerto specifico e anche per tutti gli altri che, pur volendo seguire tutto, di fatto erano automaticamente ostacolati dall’accavallarsi delle proposte (inevitabile a meno di aver ricevuto il dono dell’ubiquità) e dalla distanza stessa da ricoprire per raggiungere le varie locations. Un problema che sicuramente sarà ovviato nelle successive edizioni, sia per il fatto che tutto si è tradotto in un enorme successo, sia perché il feedback dei partecipanti ha lasciato trapelare palesemente questa lamentela.
The Orb, 12 Ottobre 2012
La storica band inglese, ha rappresentato - nei primi anni novanta - una convergenza dei generi musicali di maggiore tendenza del periodo: elettronica, techno dance e ambient. Soprattutto la peculiarità qualitativa con cui sono riusciti a fonderli innervandoli di un inaspettato estro brillante e melodico, acquatile e fluido, sci-fi ma mai straniante, ha fatto sì che per definire il loro stile si coniasse la definizione specifica di ambient house. Lavori emblematici di gran successo sono stati “U.F. Orb” (Island 1992) e lo storico singolo Blue Room, il più lungo brano mai prodotto e perfino balzato all’onore delle classifiche dei dischi più venduti. Il leader storico Alex Paterson è stato affiancato nel corso delle sue peripezie sperimentali, da compagnie più che emblematiche e influenti nell’intera scena alternativa mondiale: su tutti Steve Hillage (Gong, Egg, Khan), Jimmy Cauty (KLF) Martin Glover (Killing Joke) e l’attuale Thomas Fehlmann. Da guest star come David Gilmour e Lee ‘Scratch’ Perry che ha contribuito nel loro ultimo lavoro uscito lo scorso 3 settembre dal titolo: “The Observer in the star house”. I due arzillissimi compagni si sono presentati sul palco poco prima delle ventitre, il concerto è terminato oltre la mezzanotte e mezza. Un pubblico non numerosissimo per la verità ma discretamente attento e coinvolto. Personalmente ero mossa da grande curiosità per il loro proverbiale gioco di luci, i cut up ed i collage estrosi accompagnati dallo scorrere di immagini evocative ed ipnotiche.
Soprattutto mi aspettavo una atmosfera più da trance psichedelica mentre invece ha predominato il battito techno ossessivo ed alcune fasi di diluizione ambient onirica per la verità piuttosto noiose. La cosa a mio parere non è tanto additabile ad una loro colpa quanto al fatto che il loro tipo di intrattenimento si presta meglio alla pausa da sala chill out in discoteca piuttosto che da performance live di puro ascolto. E comunque nella loro euforia da manipolazione Paterson e Fehlmann si sono senz’altro dilungati in tempi forse eccessivi. Momenti di maggiore coinvolgimento senz’altro l’esecuzione di Towers of dub, Little Fluffy Clouds e Dolly Unit. Molto invece lo scontato e il prevedibile sia negli effetti visivi sia nel gioco di laptops. La tecnologia digitale decisamente ha scavalcato le prodezze del mix e dello switching sui piatti, rendendo tutto molto più asettico e impersonale. Forse la loro stessa fama, a dispetto di non pochi tentativi di coinvolgimento in cui si mettevano a ballare e scimmiottare, è rimasta relegata ad un certo atteggiamento di strafottenza e snobismo dopo la famosa apparizione al programma Top of the Pops in cui Paterson giocava a scacchi seduto comodamente in poltrona mentre in playback passava il sottofondo di Blue Room.
Ad ogni buon dire in quasi due ore di DJ set hanno avuto modo di attingere a gran parte del loro catalogo, tra cui Hold Me Upsetter e Ball of Fire dall’ultimo album con la voce di Perry in nastro. Poco lo spazio dato alla parte funky dub e da psichedelia sperimentale di lavori come “Okie Dokie It's The Orb on Kompakt” (Kompakt, 2005) o “The Orb's Adventures Beyond The Ultraworld” (Big Life 1991) o anche gli stessi “Live 93” (Big Life/Island 1993) e “Orbus Terrarum” (Island 1995). Troppo quello dato a pezzi come Captain Korma, Toxygene o le svariate versioni di Lunik che già negli anni ’90-00 erano stati i tormentoni techno house più alla moda. C’è però senz’altro da sottolineare l’aura di sano divertimento e di brillante giocosità che poteva leggersi nei volti dei protagonisti, capaci ancora di coinvolgersi ed entusiasmarsi al contatto con il pubblico e con i loro strumenti di lavoro. Qualcosa che comunque arriva sempre nella percezione dello spettatore e che, tutto sommato, non ti fa rimpiangere di aver dedicato loro una serata.
Echo and the Bunnymen, 13 Ottobre 2012
Grandissimo affollamento e una insolita calca per il raccolto spazio del Circolo invece, nell’attesa del concerto degli Echo and the Bunnymen. Le facce sono tutte familiari, e tantissimi sono i nostalgici quarantenni con incisi nei modi e nel vestiario tutti i target degli anni 80 e dell’epoca post punk, new wave in cui io stessa mi riconosco e identifico. C’è attesa e c’è un’atmosfera densissima di ritrovo, di partecipazione, di voglia di leggerezza, di saggiare ancora il disincanto felice e appagato di quegli anni di spensieratezza. Sono grata a Ian McCulloch di aver riproposto durante il concerto proprio la parte più solare e melodica del suo percorso, quella che ci restituisce la poesia delle trasmissioni radiofoniche e dei settimanali musicali patinati come Ciao 2001, che infervoravano - dietro ai nuovi fenomeni dark e new romantic - schiere di ragazzine ingenue e suscettibili ma ancora capaci di entusiasmo e sana follia. Gli sono grata di aver lasciato nei cassetti più intoccabili della nostra memoria e del nostro immaginario lavori topici e intensi come “Heaven up here” (Korova 1981) per rilustrare e ridare nuovo vigore alle variopinte e incantevoli atmosfere di “Crocodiles” (Korova, 1980), crepuscolare ma non oscuro, raccolto e brillante, malinconico ma compiaciuto e poi… sì ammettiamolo, dotato di tutti quei canoni estetici che proprio ci piacevano tanto, piacevano a tutti.
Non per niente Ian, da sempre gran fanatico di rossetto e lacca si presenta sul palco con occhiali scuri e spolverino malandrino, capace di sfinare la figura e conferirgli ancora, dopo oltre trent’anni di onorata carriera, un tono misterioso e sfuggente, accattivante e intrigante. La voce conserva ancora la sua timbrica inconfondibile ma è più roca e cupa e questo gli permette di scimmiottare Rio facendo il verso a Morrison e a Reed con Walk on the wild side. Insomma la ruggine c’è ma il bello di certi personaggi è che la sanno indossare con quella rigida disinvoltura e quel glam serioso e un po’ ingessato che noi negli anni ottanta chiamavamo orgogliosamente ‘stile’ ed ‘eleganza’. Si parte con Going up e Rescue ed io silenziosamente ringrazio e lodo. Ancora verranno omaggiati Villers Terrace e All that Jazz. The Cutter da “Porcupine” (1983). Seven Seas e l’indimenticabile Killing Moon dà “Ocean Rain” (1984). Siamo tutti felicemente accalcati e sudati sotto al palco, si canta a squarcia gola e si salta, pure se c’è un caldo infernale, pure se manca l’aria e non c’è spazio nemmeno per appoggiare i piedi.
E’ semplicemente bello essere là, presenti per omaggiare una band che mancava da un po’, come ammesso dallo stesso McCulloch, e che sicuramente è un tassello importante del post punk, dei video passati a ruota su DJ Television e Video Music (quella degli inizi). Canta senza soste Ian e tutta la sua band è euforica e scatenata, specialmente il batterista! Fuma mentre canta e – contraddizione tipica dei figli del suo tempo - beve latte tra un pezzo e l’altro. Noi eravamo così del resto, maniaci dell’estetica ma sregolati, annoiati e appassionati, curiosi e impassibili, superficiali forse ma istintivi e viscerali. Soprattutto cosa volete, sapevamo e sappiamo ancora emozionarci davanti a certe cose, è un po’ da infantili bambinoni ma certe scosse elettriche dopotutto sappiamo ancora regalarcele. A mezzanotte e dieci escono tutti dopo un furtivo saluto, hanno bisogno del prevedibile richiamo del pubblico, come tutti i buoni concerti di vecchia maniera, e noi urliamo, caspita che urli! Facciamo pure la hola e loro puntuali rientrano… Ian conserva ancora gelosamente il suo spolverino ruffiano e gli occhiali neri, nemmeno un rivolo di sudore, l’organizzazione si è premonita di fargli sistemare un ventilatore dietro un amplificatore (furbo lui).
Parte l’ultimo quarto d’ora all’insegna della follia nostalgica più frikkettona, io ci sono immersa dentro fino al collo, anzi ci sguazzo e mi sento ventenne, canto Nothing last for ever con un po’ di lacrimoni in agguato e nella mia testa scorrono tanti flash indicibili, che non si possono dire. Si finisce con una versione iper allungata e condita di Lips like sugar, non ci capisco più nulla, mentre salto scorgo le versioni parodistiche di David Sylvian, John Foxx e Peter Murphy che mi guardano ammiccanti saltando insieme a me. Mi ritrovo chissà come, con il tempismo inconscio dell’attimo pazzo, sopra al palco, nemmeno sono usciti che già mi sono impossessata della scaletta usata dal chitarrista Gordy Goudie. C’è un ciccione con l’auricolare che mi sta facendo brutti cenni da sotto ma io continuo a sentire la musica di Echo e degli uomini coniglio, sbraccia e mi indica le transenne allora io salto via come un gatto, forte dei miei vent’anni.