The Heartbreaks WE MAY YET STAND A CHANCE
[Uscita: 02/06/2014]
New Wave, Post Punk, Brit Pop. Chiamatela come volete ma quella musica venuta fuori dagli anni ottanta ha avuto così tanti apprezzamenti che nel tempo sembra essersi riciclata all'infinito. La fantasia agli addetti ai lavori non è mai mancata, giusto per inventarsi denominazioni sempre diverse per definire un genere ma come si suole dire "cambiando l'ordine dei fattori il prodotto non cambia". Ci troviamo insomma sempre di fronte allo stesso suono, le stesse armonie vocali, le stesse sezioni ritmiche, composizioni sempre accattivanti e strizzanti l'occhio alle charts inglesi. In fondo un gruppo come gli Heartbreaks - nome bruttarello ma è il minore dei mali - è soltanto l'ultimo parto di una new generation di band che si rifanno a sonorità che ormai conosciamo a memoria e di cui non sentiamo il bisogno di una ulteriore appendice. Dopo l'ascolto del primo disco "Funtimes" (2012) e di questo secondo "We may yet stand a chance" rimane poco o nulla per entusiasmarsi e gridare al miracolo come successo su altri media. I due album hanno armonie vocali spesso centrate, gradevoli, ma la puzza, anzi l'odore, di già sentito, del trito e ritrito, aleggia pesantemente fra questi solchi. Se fossero usciti 30 anni fa potevamo catalogarli, magari non accanto ai migliori, insieme alla enorme massa di dischi che inondavano il mercato, sotto le sigle new wave o post punk.
Qui abbiamo gli Smiths come base di partenza uniti alle solite chitarre jingle jangle che ormai non emozionano più a meno che non siano quelle storiche dei Byrds o dei R.E.M. Rispetto al primo disco We may yet stand a chance fa segnare addirittura un passo indietro, non gode dell'effetto sorpresa che magari l'esordio poteva avere. E’ aperto da due pezzi uno più brutto dell'altro: l'inizio di Paint the town beige è quasi ridicolo, poco meglio va col seguente Absolved con quei coretti irritanti e insulsi. Il meglio di loro gli Heartbreaks lo danno con gli slow che quantomeno esaltano la voce di Matthew Whitehouse, davvero niente male. Lente ballate che, a livello vocale, non possono che rimandare al primo Lloyd Cole ed i suoi Commotions magici di "Rattlesnakes" (1984), ascoltare al proposito Robert Jordan, Bittersweet, l'arpeggio delicato che apre la soffice Fair stood the wind e la finale Dying sun, forse la cosa migliore del lotto. Ballate ben costruite che però non riescono a nascondere un tasso compositivo non proprio elevato, viste le troppe cadute di tono qua e là nell'intero lavoro che talvolta sembra impantanarsi un po' come i quattro Heartbreaks, ritratti nel fronte copertina presi a trascinare a fatica una bara. I mezzi non mancherebbero di certo ai quattro ragazzi, magari in futuro ci regaleranno qualcosa di più originale e fantasioso. Per adesso una sufficienza per le buone intenzioni ci sembra il massimo che un prodotto simile possa meritare.
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