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21 Ottobre 2024 ,

Procol Harum Broken Barricades

1971 - Chrisalis

Chi scrive questa nota crede, e ha sempre creduto, che anche nella musica vi sia l’imprinting, e se la cosa non vale per tutti, vale per lo scrivente che ha un debole per alcuni album che pur non essendo il massimo dell’eccezionalità, sono i primi che hanno aperto le porte alla conoscenza di una band o di un tipo di musica. È il caso, tra molti altri, di Broken Barricades (1971) dei Procol Harum, primo disco all’epoca acquistato e ascoltato della band di Gary Broker e soci che pur non essendo certo il migliore degli oltre venti pubblicati dalla band possiede un fascino innegabile e indimenticabile, se non altro per chi scrive. La quinta prova in studio dei PH è un album senza hit, al contrario di brani famosi e di successo quali Conquistador, A Whiter Shade Of Pale, Homburg, A Salty Dog, Repent Walpurgis, disseminati in dischi precedenti e successivi o pubblicati come singoli e su antologie, considerando anche una delle prime e immaginifiche suites di progressive rock, la bellissima In Held Twas In I (ne consigliamo anche l’ascolto nella magnifica versione del supergruppo neo-prog americano dei Transatlantic nel loro primo album “SMPT:e” del 2000), suite in cinque movimenti che, ragionando in termini vinilici, occupa un’intera facciata del bellissimo secondo album “Shine On Brightly” del 1968. Niente di tutto questo in “Broken Barricades”, album composito, forse anche troppo, con quelle otto canzoni diversissime tra loro che lo rendono un po’ raffazzonato ma al contempo estremamente affascinante. Questo quinto album è anche l’ultimo che vede Robin Trower alla chitarra elettrica, sostituito, pare, per l’eccessiva influenza Hendrixiana che lo rendeva poco personale, anche se a noi piace pensare a una rivalsa dovuta al fatto che proprio in questo disco, Trower è il protagonista assoluto, bypassando le tastiere che avevano precedentemente caratterizzato il sound del gruppo considerando anche che una colonna della band come l’organista Matthew Fisher aveva abbandonato dopo il terzo album “A Salty Dog” del 1969. In realtà Trower, chitarrista dalla tecnica sopraffina, qui è ancora piuttosto personale e solo in seguito si perderà cadendo nella deriva Hendrixiana che buona fama gli porterà, ma ancor più critiche feroci susciterà presso pubblico e addetti ai lavori, nonostante il più che discreto successo commerciale della sua successiva carriera solista, relegandolo a una sorta di pedissequo clone del mancino di Seattle. Spodestato quindi il potere tastieristico (l’organo Hammond affidato al bassista Chris Copping in quest’album è raramente protagonista), ecco che troviamo subito il bel riff semi-hard di Simple Sister che apre l’album con conseguente assolo chitarristico al centro del brano, la psichedelica (qui sì, assolutamente Hendrixiana) e onirica Song For A Dreamer, brano a firma, ovviamente, di Trower insieme a Memorial Drive il cui riff e andamento americanamente blueseggiante à la Cream dimostrano la passione di Trower per le formazioni triangolari che caratterizzeranno la sua futura carriera. La voce di Gary Broker, che strumentalmente si occupa solo del pianoforte, è sempre calda e pastosa ed è un piacere ascoltarla, mentre Chris Copping che, come abbiamo detto, si divide tra basso e organo trascura quest’ultimo anche se nella title track un bel riff di sintetizzatore (non accreditato nella strumentazione) punteggia tutto il brano con ritmo altalenante. La romanticissima e al contempo pornografica (o pornosonica, vedi testo) Luskus Delph, forse il brano più noto del disco è una canzone progressive, sinfonica e barocca con archi orchestrali che confermeranno in seguito la sua presenza, unico brano di questo disco, nel bel concerto live con la Edmonton Symphony Orchestra (extended version del 2018) pubblicato l’anno successivo. La ritmata Power Faiure ci tiene invece a dimostrare ancora una volta l’ecletticità del disco rivestendosi di un tribalismo percussivo di stampo africano che ovviamente vede protagonista il batterista B. J. Wilson. Playmate Of The Mouth è una sorta di bel blues chitarristico punteggiato da una sezione fiati reboante che sembra provenire dalla New Orleans degli anni ‘20, mentre la conclusiva Poor Mohammed, terzo e ultimo brano a firma di Trower, è ancora un ottimo blues ritmato e chitarristico. Un album composito e variegato, più di transizione che pietra miliare, ma dove ritroviamo in quei quaranta minuti il blues tanto amato da Robin Trower, il progressive appannaggio più di Gary Broker, il tribalismo africano, echi di New Orleans, impennate hard, romanticismi e momenti psichedelici che convivono amabilmente tutti insieme. Menzione speciale per il paroliere Keith Reid autore di tutti i testi e da sempre considerato effettivo membro del gruppo, al punto che, mentre in copertina, (bella l’originale in gatefold fustellata), i quattro musicisti mostrano solo i loro volti, nel retro della stessa Reid ha una più grande immagine a figura intera. Nel corso del tempo l’album è stato riedito più volte in edizioni più o meno diverse, con varie bonus track, booklet di foto e interviste, interi concerti live aggiunti, versioni alternate dei brani presenti e altri inediti provenienti dalle stesse registrazioni, ma noi, che all’epoca avemmo l’imprinting, ci siamo occupati della versione originale nella sua sintesi primigenia, significativa ed esplicativa, del rock dei Procol Harum del 1971.

Maurizio Pupi Bracali

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