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26 Settembre 2024

C’era Una Volta In America – 40esimo Anniversario Sergio Leone

1984 - Lucky Red

Regia di Sergio Leone - 1984 - Con Elizabeth McGovern, James Woods, Robert De Niro, Treat Williams, Joe Pesci. Titolo originale: Once upon a Time in America. Genere Drammatico, - USA, 1984, durata 227 minuti. distribuito da Lucky Red.

40 anni fa usciva nelle sale “C’era una volta in America”, il testamento artistico di Sergio Leone che suggella le disillusioni di un’epoca al crepuscolo.

 

“Che hai fatto in tutti questi anni?” – “Sono andato a letto presto”.

Questo scambio di proustiana memoria inaugura il viaggio più impervio dell’ultimo antieroe di Sergio Leone. Un viaggio alla ricerca del proprio tempo perduto, della baldanza giovanile stemperata nelle cicatrici di una vita atona, al traguardo di una corsa che non ha riservato a un cavallo di razza i successi cui sembrava destinato. Un viaggio nel quale passato e presente si fondono, il sogno e la realtà si accavallano, la mente è chiamata a selezionare l’immagine alla quale credere, e il ricordo sembra l’unico patrimonio da preservare. Sergio Leone, invero, è sempre stato un abile giocoliere del tempo. Lo è stato dal punto di vista puramente tecnico, con un raffinato e quasi compulsivo uso del “flash-back”, che dilata le lancette dell’opera senza alcun pregiudizio per il ritmo narrativo. Lo è stato, soprattutto, in veste di scrittore della storia del cinema. Lui, che ha avuto la presunzione di far rivivere il genere western nel decennio in cui era considerato al capolinea, poiché il mito della frontiera stava per essere soppiantato dalla scoperta della galassia. E lo ha fatto all’interno del Bel Paese, dove la tradizione artistica non ha mai riservato uno spazio degno di nota alle gesta dei cowboys. Negli anni Sessanta, il cineasta romano destruttura l’archetipo delle opere di John Ford, e lo ricompone con il suo sguardo d’autore. Pur mantenendo ampi elementi della grammatica fordiana (in primis, nella profondità di campo), Sergio Leone ribalta il paradigma del pistolero del deserto. Tramonta il modello del bandito dalla faccia pulita alla John Wayne, denso di patriottismo e di fiducia nel progresso, e compare l’antieroe volgare con i lineamenti di Clint Eastwood: sudicio, stivali e poncho grezzi, immancabile sigaro in bocca, sguardo glaciale che non lascia spazio ad alcun romanticismo. I personaggi leoniani sono disincantati, scevri di valori positivi, e mossi unicamente dal proprio utilitarismo (finanche quando vestono i panni del giustiziere). E così, dopo l’esordio alla regia con l’atipico e acerbo peplum “Il colosso di Rodi” (che denota, comunque, i primi vagiti della visione leoniana), il cineasta si consacra quale sommo rappresentante dello spaghetti-western con la trilogia del dollaro. Spaghetti-western: quel neologismo dispregiativo coniato da una parte dell’intellighenzia che non è mai stata troppo tenera con l’artista. Probabilmente, in un’epoca fervente di buoni ideali, in cui i circoli intellettuali propugnano il dogma del cinema impegnato, quasi di militanza, e fissano in alto l’asticella della raffinatezza filmica, una larga fetta della critica non è ben disposta verso un ritorno in auge della frontiera tutto nichilismo e violenza (alla vigilia dei moti sessantottini, sic!). Certo, il Leone nazionale non è stato avulso da taluni scivoloni: quella storia del plagio di “Yōyimbō” – antipatica querelle legale contro Akira Kurosawa - presta facilmente il fianco a giudizi di approssimazione artistica. Ma, al di là di ciò, verosimilmente non gli è mai stata perdonata la sua perenne collocazione al di fuori dei confini spazio-temporali prestabiliti. Un artista tutto nichilismo e violenza: benché indubbiamente riduttiva, tale definizione può sintetizzare efficacemente la complessa grammatica leoniana. Cresciuto, come tanti, abbagliato dal fascino della grande potenza mondiale, nata dai pionieri delle lande desolate, disilluso – con la maturità – dalle innumerevoli ombre a stelle e strisce. Il disincanto del cineasta romano, dentro e fuori dai confini yankees, trasuda anche dalla trilogia del tempo (indimenticabile, a tal proposito, il dialogo sulla rivoluzione de “Giù la testa”, che culmina con il lancio del testo di Bakunin).

“C’era una volta in America”, l’opera che conclude il suddetto trittico, è una magnifica summa della poetica del compianto autore. Gli Stati Uniti vengono presentati, in uno scorcio di inizio Novecento, come la terra delle grandi opportunità, tanto all’interno del perimetro della legalità, quanto per le ambizioni di carriera malavitosa. Nel corso di un cinquantennio, il Paese d’oltreoceano rivela la sua spietatezza nel tradire le aspettative dei meno avvezzi alle sgomitate. Come avvenuto per i cowboys dei western all’italiana, il regista stravolge il prototipo del gangster gentiluomo e ricco di fascino (Humphrey Bogart docet), tipico dei noir classici. Noodles – al secolo David Aaronson - e i suoi compari hanno una carica di laidezza tale da risultare respingenti. La violenza, estrema, forse gratuita, è l’unico linguaggio che hanno appreso dal ghetto, e la sola reazione ai primi scampoli di tramonto del loro sogno americano.

“Io avrei scommesso tutto su di te” – “E avresti perso”

David Aaronson ha il profilo del boss futuribile nell’America di inizio Novecento. Lucido, acuto, esecutore spietato, ha le carte in regola per una rapida ascesa nell’universo criminale. Eppure, la sua corsa viene frenata da scampoli di lealtà e sentimentalismo, debolezze non ammesse dalle regole del gioco. Lo scugnizzo è sempre stato legato al quartiere dove è cresciuto, e agli amici di adolescenza con i quali ha iniziato l’attività criminale. Accoglie tra le sue braccia il corpo agonizzante del compagno di banda Dominic, ucciso dal capo di una gang rivale, e si espone per vendicarne le sorti (con la furia incontenibile che nasce da un legame prematuramente spezzato). Diffida dalle collusioni necessarie per espandere gli affari sul territorio confederale, subodorando il rischio di diventare una pedina nelle mani di grandi manovratori, e di imbattersi in scontri fratricidi. Per lui esiste un codice d’onore – il codice del ghetto ebraico - che non può essere tradito sulla strada dell’arricchimento. Questo provincialismo catalizza le antipatie dei mammasantissima, che considerano il protagonista come un freno a mano tirato per la crescita dell’organizzazione. E provoca altresì alcune frizioni con Max, il più grande partner in crime di Noodles. Max, a dispetto della comunanza di origini, per certi versi, è l’antitesi del socio: ha una brama di successo che sfiora la megalomania, è connotato da una marcata spregiudicatezza e da un’apparente intangibilità affettiva. Per lui, il fine giustifica ogni mezzo: persino il gelido defraudamento di una grande amicizia.

“Siamo due vecchi, Noodles. L’unica cosa che ci resta è qualche ricordo. Se domani sera andrai a quella festa neanche quelli ti rimarranno.”

Il più vulnerabile tallone d’Achille di Noodles risiede, probabilmente, nell’amore che prova per Deborah, l’aspirante attrice figlia del gestore della locanda di quartiere. La ragazza ricambia i sentimenti del protagonista, benché consapevole – fin dall’età puberale – della profonda distanza tra i loro mondi: un sudicio ragazzo di strada non potrà mai essere il diletto di una futura star.

Deborah incarna la faccia pulita dell’american dream. Ma le regole del gioco sono ugualmente feroci: per salire sull’ascensore sociale occorre una buona dose di implacabilità. E così, l’affascinante mora spegne il sogno d’amore di Noodles, che ha trascorso un decennio di reclusione con l’ardente desiderio di ritrovarla. La loro unione, infatti, costituirebbe un ostacolo insuperabile per la carriera attoriale. Il gangster reagisce alla prospettiva di separazione con un eccesso di brutalità e prevaricazione fisica, immortalato in una delle scene maggiormente criticate dell’opera; disturbante quanto necessaria per fotografare l’irredimibile bestialità dell’uomo, e l’inesistenza di esemplari portatori di autentici valori. Noodles, in fondo, è un antieroe come tanti. Nel corso del tempo, Deborah scende ad ulteriori compromessi, stipulando un autentico patto faustiano per sigillare il proprio successo. Il contratto dalle statuizioni più malvage nei confronti di Noodles, al quale rimane soltanto lo stigma del perdente e la puzza della strada cui è tanto affezionato.

“Andò male a lui, e andò male a me.”

A oltre trent’anni di distanza dal suo fallimento, e dopo un esilio volontario trascorso nell’anonimato, Noodles viene richiamato dai fantasmi del passato: un invito a fare i conti con le molteplici questioni irrisolte, recapitato proprio da colui che si rivela il principale artefice delle macerie esistenziali che avvolgono il protagonista. Si intravede un confronto finale, una possibilità di riscatto, la chance di pareggiare un match che sembrava chiuso da decenni con un ko tecnico. L’amico/carnefice, anche in questo caso, è animato principalmente dal proprio egoismo. Le ragioni dell’invito, infatti, non risiedono nel senso di colpa, né in un impeto di generosità, bensì nell’ultimo desiderio di un uomo al capolinea.

Noodles trova la soluzione del suo enigma. La risposta, però, è talmente amara e inaspettata da far rimpiangere il limbo degli interrogativi. Esaudire il desiderio dell’amico di infanzia significherebbe ammettere la cruda realtà, e contribuire a realizzare il finale cupo di una storia sbagliata. Il gangster “buono” sceglie così di dissociarsi, di trincerarsi nel ricordo, nella sua versione romantica del racconto: quella di Lower East Side, di un’America raggiante in cui il sogno di due amici inseparabili si è spezzato a causa di un destino infausto. In fin dei conti, entrambi escono sconfitti dalla parabola discendente dell’american dream. Probabilmente, in ambedue le versioni prospettate.

A dispetto dello scarso successo conseguito all’atto dell’uscita nelle sale (anche a cagione dei tagli alla pellicola imposti dalla produzione), delle recensioni non sempre generose da parte della critica degli anni Ottanta, del digiuno di riconoscimenti importanti, “C’era una volta in America” è riuscito negli anni – come pochi altri film nella storia della Settima Arte – a sedimentarsi nella memoria collettiva di generazioni di spettatori, e a guadagnarsi il quasi unanime appellativo di “capolavoro”.

Il finale dell’opera, con l’iconico sorriso di un Robert De Niro avviluppato dai fumi oppiacei, è a tutt’oggi una sequenza estremamente dibattuta, in bilico tra sogno e realtà, che divide le interpretazioni del pubblico e degli addetti ai lavori. Forse, l’evoluzione dei fatti rappresenta un’allucinazione di Noodles, un tentativo del suo inconscio di alleggerire il peso della frustrazione ricamando un vile tradimento. Forse, il fotogramma cristallizza soltanto un momento effimero di pace, un breve intervallo di evasione dall’America fagocitante. Quella terra promessa che ammalia anche quando stritola con le sue dinamiche. Come ci insegnano le note di “God bless America”, che accompagno il prologo e l’epilogo della narrazione. Come ci insegna l’intera filmografia di Sergio Leone. Il cineasta romano scompare, all’improvviso, silenziosamente, qualche anno dopo la fine delle riprese dell’opera, che rimane il suo canto del cigno. E così, “C’era una volta in America”, e il placido, enigmatico, beffardo sorriso di Noodles, potrebbero assurgere a rango di specchio dell’intera parabola leoniana: una carriera artistica spezzata prematuramente da un destino ineluttabile, un sentiero professionale in cui ha raccolto, verosimilmente, meno consensi di quelli che avrebbe meritato. Uno dei tanti sogni rimasti incompiuti.

In fondo, anche Sergio Leone è andato a letto presto.

Alessio Fugazzotto

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