Julian Cope REVOLUTIONARY SUICIDE
[Uscita: 17/06/2013]
# CONSIGLIATO DA DISTORSIONI
Si dica pure che Julian Cope è un po’ "fuori”. Altri dileggino pure che è fuori come un balcone. Può essere. Resterebbe tuttavia da capire fuori da cosa, o da dove. Stante il fatto che noi tutti che abbiamo a che fare con Distorsioni, tanto "dentro” non amiamo considerarci, abbiamo ora il compito di illustrarvi l’ultima produzione dell’arcidruido che meglio rappresenta le nostre ossessioni di un sano paganesimo. "Revolutionary Suicide” segue a un anno "Psychedelic Revolution”, (doppio cd come il presente), effigiato pure lui nella cover (art by J.C.), da una silhouette che solleva, sembrerebbe, un Kalashnikov verso il cielo: ora avviene dalla cima di un dolmen crollato dopo alcune centinaia di migliaia di anni. Tanto per confermare la matrice di un immaginario che l’autore mantiene in ambito rivoluzionario/barricadero, filo zapatista come solo un uomo dedito ad un anticapitalismo di stampo neolitico potrebbe. Il mondo del signor Giuliano sfugge in verità a qualsivoglia collocazione politica (destrorsa) e infatti nelle note, segnala l’album essersi completato il giorno dei funerali di Margaret Thatcher, buon’anima alla quale (per non dire altro) non augura alcun tipo di R.I.P.. A voi scoprire tematiche e invettive vergate nei testi e poemi presenti nel libretto. Importa invece, a noi che scriviamo, che Julian Cope sia sempre l’amato artefice di imprese sonore cariche di quella particolare britishness, squisita sofisticatezza stilistica, oggi riscontrabile purtroppo in pochissimi altri autori (ora ci viene in mente il caro Neil Hannon).
Cosa distanzia le sue attuali performance dalle prime esperienze solistiche? Poco o nulla, tanto che l’alto livello della sua produzione, pure negli anni discontinua, ce lo consegna oggi, come ieri, ad una classicità incontestabile, vero stilema di un intero genere. Considerazione questa che probabilmente a lui stesso starebbe alquanto sulle palle, ma tant’è. Il Cd One, in circa trenta minuti condensa tre brani. Hymn To The Odin, a dispetto del titolo che preluderebbe ad un approccio wagneriano, è una lunga ballata acustica che tra chitarra e fisarmonica, cresce per sbocciare in una infiorescenza tastieristica rabbrividente quanto modulare è il synth che chiosa tra sommovimenti esplosivi, riff e bonghi. E, naturalmente, c’è l’ emozionante vocalità di Julian Cope. Why Did The Chicken My Mind? si avvia dolente con rintocchi pianistici che introducono mellotron arc, oboe elettronici, birignao di un Cope che dai toni più bassi gigioneggia come un vecchio freak che si diverte. The Armenian Genocide, il cui titolo dice già parecchio, è anch’essa ballata, chitarra acustica con grancassa che ne rintocca il divenire, per completarsi in un crescendo di tastiere e una coralità emotiva in cui il vecchio sintetizzatore, accordato a dovere, la farà da padrone. Brano che, tra l’altro, sembra avere la peculiarità di seguire il nostro desiderio: quello di non finire mai (16 minuti circa).
Il Cd Two, risulta più discontinuo nella qualità, ma certamente più vario nei temi: Revolutionary Suicide , basso, batteria chitarra & keyboards (effetto tromba), deflagrazioni sintetiche, un crescendo che annotiamo oramai come tratto distintivo dell’intero album. Paradise Mislaid con un Cope così deliziosamente pop-barocco che amiamo come fosse nostro fratello: lo conosciamo appieno, ma ancora non capiamo a chi in famiglia somigli di più. Mexican Revolution Blues e Russian Revolution Blues, la prima ballatina folksy chitarra e grancassa, traccia appena abbozzata; la seconda calderone poco definito dove il Julian ce la racconta tra un’esplosione sintetizzata e l’altra (ancora). They Were on Hard Drugs, titolo alquanto didascalico, è uno stilizzato incedere di ritmiche elettroniche (stile Bontempi) e tastiere vacue e stranianti. Anche qui la prestazione vocale di Cope appartiene al repertorio più confidenziale del nostro. In His Cups incede arieggiando una piena melodia copeana con lo strumento a tastiera che rimanda al classico oboe e la batteria e la voce e la nostra emotività che ci fa allontanare dal computer. Phoney People, Phoney Lives, ancora lui, a determinare i contorni della nostra sensibilità psichedelica, morbidamente, tra sibili e melodia squisitamente pop. Brano brevissimo e completo, che appartiene al mistero di un autore così fecondo. Chiude Destroy Religion, in un modo lunare e tribale, quasi pagano con tamburi, vento, pioggia e i ringhi minacciosi di chissà quale bestia evocata dal nostro che ora si risveglia in pieno rituale. Una chiosa così strampalata ed eccentrica, un personaggio un po’ fuori, un album con il quale si perpetua la leggenda di Julian Cope.
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