Migliora leggibilitàStampa
24 Novembre 2020

Indagine Su Un Cittadino Al Di Sopra Di Ogni Sospetto – 50esimo Anniversario Elio Petri

1970 - Vera Film

Regia: Elio Petri. Cast: Gian Maria Volonté, Florinda Bolkan, Orazio Orlando, Gianni Santuccio, Salvo Randone. Genere: Poliziesco. Paese: Italia. Durata: 118 Minuti. Vera Film. 

Il Dottore si avvicina al palazzo della sua amante in un torrido pomeriggio di agosto. Impomatato, di impeccabile eleganza, postura impettita, sguardo austero e glaciale, procede con un passo esitante e nervoso che tradisce la precisione chirurgica della sua pettinatura. Lei è là, dietro la tendina, sensuale, disinibita, avviluppata nella noia dello sfarzo privo di emozioni, che allarga un sorrido malizioso, sfidante, beffardo, scorgendo quell’incarnazione del potere che le suscita una sadica eccitazione. Lo scabroso gioco erotico dei due amanti, questa volta, trascende. La sontuosa stanza versaillana di Augusta Terzi diventa il teatro di un omicidio premeditato, dell’efferatezza con cui il Dottore sgozza la sua partner durante il coito. Nasce così il primo capitolo della virtuosa trilogia della nevrosi firmata Elio Petri, geniale artista, intellettuale e principale esponente del cinema politico italiano, troppo presto ed immeritatamente caduto nell’oblio. “Indagine Su Un Cittadino Al Di Sopra Di Ogni Sospetto” ci racconta l’inquietudine del potere che attanaglia il Dottore, alto funzionario della polizia dalla carriera in costante ascesa, del quale non è dato conoscere le generalità, quasi a volergli attribuire quell’aura di inarrivabilità da custode dell’inaccessibile porta della legge e dell’ordine pubblico. Il Dottore è conscio della posizione di forza del suo scranno, sguazza nel timore reverenziale che incute nella società e nei suoi colleghi, disprezza la deferenza dei suoi sottoposti pur sfruttandola per costruirsi l’immagine di uomo intoccabile. È fermamente convinto di detenere una vis inarrestabile, di controllare la potestà punitiva al punto di poterla sviare per la realizzazione di un personale disegno criminoso, senza rischiare di finire sul banco degli imputati. Si reputa al di sopra della legge che lui stesso rappresenta, e, pertanto, crede di sfuggire al raggio di azione dei precetti. Tuttavia, rimane presto vittima del suo delirio di onnipotenza, che lo fagocita e poi lo repelle, mettendone a nudo le fragilità che ha tentato invano di sopprimere con la divisa. Il volto del potere appartiene allo straordinario Gian Maria Volonté, fuoriclasse della recitazione che raggiunge con questa performance l’apice del suo curriculum, e che suggella un sodalizio artistico e di militanza con Elio Petri, inaugurato qualche anno addietro con la trasposizione cinematografica del romanzo di Leonardo SciasciaA Ciascuno Il Suo”. I due si ritrovano a lavorare insieme, l’anno successivo, nella realizzazione del secondo atto della trilogia, la nevrosi del lavoro. Qui Volonté interpreta l’indimenticabile Lulù de “La Classe Operaia Va In Paradiso”, il crumiro stritolato dalla sua abnegazione per la catena di montaggio nella quale è compenetrato, risucchiato nel vortice di alienazione di quei meccanismi del plusvalore ai quali si asservisce nell’illusione di essere parte integrante del sistema di profitto. L’idillio artistico viene purtroppo incrinato da alcuni dissidi, a cagione dei quali Volonté non veste i panni di Total (sostituito egregiamente da Flavio Bucci), il banchiere anarchico che sviluppa una crescente ed incontrollabile orticaria al contatto con il denaro ed ogni forma di ricchezza, nel capitolo conclusivo della triade: “La Proprietà Non E' Più Un Furto”, opera meno fortunata ma estremamente efficace nella sua irriverenza anticapitalistica. Autorità, produzione, moneta. Tre entità che logorano chi non le controlla, e al contempo alienano, corrompono, consumano chi ne viene a contatto. Il Dottore come insopportabile despota del potere coercitivo. La scalata ai vertici della forza pubblica a braccetto con l’escalation dell’uso distorto del potere che ne deriva: non è un caso se il protagonista sceglie di commettere l’efferato omicidio che dà i natali al film il giorno della sua promozione a capo dell’Ufficio Politico della Questura.

Il nuovo prestigioso status dà al Dottore la forza di liberarsi della sua amante, vittima sacrificale seppur priva di candore, e di sbeffeggiare l’istituzione che lo ha forgiato seminando meticolosamente indizi nel luogo del delitto, telefonando alla polizia per segnalare il reato in via anonima (senza preoccuparsi di camuffare la voce interloquendo con i suoi colleghi/sottoposti della centrale), e recandosi al lavoro – subito dopo l’uscita dal nido d’amore tinto di sangue – con una bottiglia di champagne per festeggiare la sua consacrazione nel pantheon dell’autorità. All’ingresso della Sezione Omicidi, fortino del Dottore in partenza verso altri lidi, viene acclamato da una pletora di burocrati di vario livello, come tanti servili satrapi al cospetto dell’imperatore, proprio mentre nei corridoi inizia a diffondersi la notizia dell’assassinio di Augusta Terzi. Così, senza alterare di un millimetro la sua postura cameratesca, e non mancando di rimbrottare i suoi sottoposti per il presunto pressapochismo del loro operato, torna nel palazzo della tragedia nelle vesti di emissario della giustizia. Effettua i rilievi sugli oggetti che aveva in precedenza manipolato, insinua dubbi, confeziona ipotesi fumose per le indagini e per la stampa. Sezione Omicidi e Ufficio Politico della Questura: il vecchio e il nuovo feudo del Dottore legati a doppio filo dai metodi draconiani e dall’arrogante influenza del capo. Il protagonista è stoicamente convinto che la caccia ai criminali abbia la stessa matrice della repressione contro i sobillatori, poiché criminali e sobillatori - quand’anche questi ultimi siano dissimulati dallo specchio per le allodole del dissenso – sarebbero accomunati da una natura patogena all’interno dell’ordine costituito. Si attribuisce il rango di massimo anticorpo della società, di direttore del laboratorio dove viene quotidianamente brevettato il vaccino contro il disordine. La prevenzione, nel protocollo del Dottore e dei suoi collaboratori, viene perseguita precipuamente con la massima efficacia nella risoluzione dei casi. Assicurare alla giustizia un colpevole (o, in mancanza, accontentarsi di un capro espiatorio) è il migliore deterrente contro crimini e destabilizzazioni. Il curriculum del protagonista parla chiaro: soltanto 10 delitti impuniti su 102 casi pervenuti, sotto la sua egida, alla Sezione Omicidi. Queste percentuali possono essere raggiunte soltanto torchiando, pressando, soggiogando, nel segreto dei tuguri adibiti ad interrogatorio, i sospettati, i testimoni, le persone informate sui fatti, al fine di carpire informazioni, delazioni, confessioni. Ed è così che le indagini sul brutale omicidio di Via del Tempio 1 vengono instradate verso una persona immediatamente aggredibile: il marito, separato dalla vittima da tre anni, che per effetto del decesso potrebbe ereditare un ingente patrimonio. Lui, bersaglio facile anche a cagione della sospetta omosessualità, viene fermato e condotto in Questura, dove una moltitudine di agenti lo accerchia e lo incalza incessantemente, non lesinando mezzi di coartazione fisica, mirando al crollo psicologico ed al rilascio di una dichiarazione di colpevolezza che archivierebbe frettolosamente il caso. Proprio quel torchio che tanto eccita Augusta Terzi, come mostra uno dei martellanti flash-back che svelano allo spettatore i particolari più scabrosi del rapporto carnale tra vittima e assassino. La donna ama essere sottomessa durante la simulazione di un’inquisizione, e finanche riprodurre eroticamente le scene dei più atroci crimini in cui si imbatte la squadra del Dottore, in un’esasperante spirale di sadismo-voyeurismo che racconta il lato depravato dei legami tra sesso e potere. La gerarchia tra i funzionari, la rigida struttura verticistica dell’istituzione, come principio cardine della suddivisione interna del potere e della salvaguardia degli equilibri dell’apparato. Il Dottore cavalca la sua posizione apicale per mantenere un ponte con la Sezione Omicidi anche successivamente al passaggio di consegne, accede agevolmente ad ogni informazione utile per costruire il suo delirante mosaico, entra a gamba tesa nelle indagini, depista, spiazza, confonde. Rigorosamente al di sopra di ogni sospetto. Umilia, in una memorabile sequenza della pellicola, il mediocrissimo e succube Panunzio, attendendolo alla scrivania con un dossier che certifica l’oltraggioso rapporto parentale intercorrente tra il sottoposto ed un comunista potenzialmente eversivo. Apostrofa il vassallo quando quest’ultimo lo relaziona in merito allo stato delle indagini sull’assassinio Terzi, con l’individuazione di piste del tutto nebulose, e della mancanza di impronte utili sul luogo del delitto, dal momento che le uniche tracce rinvenute sono riconducibili proprio a lui, il maestro venerabile. Un impaurito Panunzio si affretta, in un diverso contesto spaziale intriso di onirismo, a mostrare al Dottore una gigantografia di tutte le impronte digitali, a quest’ultimo appartenenti, rinvenute nel nido di sangue, raffazzonando una suggestiva ed impacciata spiegazione del motivo per il quale il capo supremo sarebbe entrato in contatto con questo o con quell’oggetto, privo delle precauzioni indefettibili degli inquirenti, quando si è recato nell’appartamento di Via del Tempio 1 in veste ufficiale. Se il Dottore prende in mano una tazzina di caffè nella cucina della vittima, evidentemente vuole rimediare ad un colpo di sonno intervenuto repentinamente sulla scena del crimine. Nessuno si avventurerebbe in altre illazioni. Ogni azione cervellotica del protagonista, sinistramente premeditata, tende a rinforzare la sua aura di intangibilità. Lui, gerarca della giustizia terrena, con probabili ambizioni divine, è al di là del bene e del male. Provoca con piglio sfrontato l’istituzione nel momento in cui riferisce a sua Eccellenza il Questore dei suoi rapporti con la vittima, interrogandosi – tra il serio ed il faceto - sull’opportunità di portare la circostanza a conoscenza degli investigatori. Il Questore liquida la questione con un sorriso monitorio, una connivente stretta di mano, un congedo insabbiatore. Il Dottore non può essere scalfito nel tempio dell’immunità. Ne è sempre più consapevole. Fino a quando i demoni della desolazione umana iniziano a reclamare una redenzione, e la freddezza della sua persona viene travolta dal sudore della febbre dostoevskijana. Soltanto il Dottore può essere l’artefice della propria rovina. Il Dottore come vittima pusillanime delle magagne dell’apparato e delle dinamiche sociali. Le rimembranze riaffiorano, le immagini rimbombano. La relazione tra il protagonista ed Augusta Terzi, sotto la parvenza ingannatrice della passionalità e della trasgressione, vira verso la deriva del bieco gioco al massacro. La donna, in principio, cerca in tutti i modi un contatto con il Dottore, attirata dalla posizione da questi ricoperta, infervorata dalle dinamiche masochiste della coercizione. Dopo averlo adescato, con il tempo, riesce subdolamente a far venire a galla il lato fanciullesco ed irresoluto del funzionario. Lo umilia, ne denigra trucemente le arti amatorie, gli sbatte in faccia spudoratamente la maggior veemenza di altri rapporti adulterini che intrattiene in contemporanea. Augusta Terzi inizia a condividere il letto con Antonio Pace, un giovane anarchico insurrezionalista che sta entrando prepotentemente nelle grazie della maliarda. Che smacco feroce per il Dottore! Lui, il detentore dell’arte della giustizia, il sommo esecutore della legge, sopraffatto proprio da chi si pone spavaldamente al di fuori di ogni regola, e mira al ribaltamento di quell’ordine costituito che sta a fondamento della civiltà. Un venditore ambulante di caos, un’erbaccia da estirpare. Il Dottore, nel segreto delle lenzuola, si risveglia come un omuncolo qualunque, spogliato della magna illusione di grandezza e virilità che l’incoronazione dello Stato gli aveva mendacemente conferito. Sente il potere sfuggirgli di mano, come un giocattolo pericoloso che non ha mai avuto la maturità per gestire, e mostra segni crescenti di dissociazione, di schizofrenia, di lacerazione tra il candido desiderio di catarsi e la recrudescenza della corazza autoritaria. Confessa (senza qualificarsi) la sua colpa ad un ignaro, malcapitato cittadino che si trova accidentalmente sulla strada della redenzione, fornendogli gli strumenti per dare una decisiva svolta alle indagini, ed incaricandolo di recarsi in Questura per riferire quanto appreso, assolvendo così quel dovere civico che caratterizza ogni buon consociato. Il modesto artigiano (uno stagnaro, come dispregiativamente ribattezzato dagli odiosi burocrati), stordito e allarmato dalla situazione in cui si trova incastrato, esegue alla lettera le indicazioni ricevute. Ma trovandosi al cospetto del suo interlocutore, in veste ufficiale, negli uffici di polizia, con uno sguardo torvo che non suggerisce alcuna volontà di espiazione, nega di riconoscerlo, attribuendo ad un’incipiente senilità la sua bizzarra ricostruzione dei fatti. Sullo sfondo, i funzionari di polizia continuano a girare la testa dall’altro lato. Lo squarcio letale nella già frantumata anima del protagonista viene inferto dall’acerrimo nemico, di letto e di battaglie, Antonio Pace. Il rivoluzionario, convocato nei sotterranei della Questura poiché sospettato dell’esplosione di una serie di ordigni piazzati in punti nevralgici della capitale, riconosce il suo inquisitore e lo addita come l’amante omicida di Augusta Terzi, avendolo visto uscire dal palazzo incriminato nel torrido pomeriggio di agosto che cambia il corso degli eventi. Decide di non denunciare l’antagonista, benché questi chieda – sempre più scarmigliato, disunito e miseramente piagnucolante – di essere consegnato alla giustizia, ma di sfruttare la circostanza a vantaggio dei moti anarchici, dal momento che potrebbe agevolmente ricattare il leader della repressione poliziesca. Il piano del Dottore è definitivamente fallito. L’immagine che lo specchio gli riflette non è quella di un uomo irreprensibile, intoccabile, insospettabile anche davanti alle evidenze, non è quella del braccio della legge che può disporre della potestà punitiva per un proprio, personale, repulisti, ricevendo un’aprioristica legittimazione dalla società che preserva a modo suo. È quella di una debole pedina in uno scacchiere malato, che non viene chiamata ad assumersi le responsabilità dei fatti commessi unicamente per un bieco spirito di autoconservazione del sistema di cui fa parte.

I colleghi non incriminano il protagonista per preservare il decoro delle forze dell’ordine, gli onesti cittadini non lo accusano per timore reverenziale nutrito verso i funzionari della sicurezza, i fuorilegge lo risparmiano per depotenziarlo ed asservirlo al progetto di un nuovo equilibrio sociale. Il delitto di Augusta Terzi non è una punizione legittimamente inferta a chi sfida le regole dell’ordine costituito, bensì la miserabile esecuzione di un boia di cui tutti, in fondo, conoscono l’identità, ma che nessuno ha l’interesse o la forza per condannare. Ed è solo per questo motivo che a pagare per il misfatto sarebbe un innocente. Il Dottore, assunte ormai le sembianze di Raskolnikov, raggiunge la consapevolezza di avere un’unica possibilità per riabilitare se stesso e per riscattare la giustizia che ha giurato di servire: rendere una completa ammissione di responsabilità. E così consegna una dichiarazione scritta alla Sezione Omicidi, apostrofando i colleghi per essere venuti meno al loro dovere di ricerca della verità, ed invitandoli ad assolvere le procedure di legge verso l’assassino di Via del Tempio 1. Dall’altra parte, il suo successore alla guida del reparto, esterrefatto, lo biasima non già per l’orrendo crimine di cui si è macchiato, bensì per aver messo in crisi la tenuta dell’istituzione. Il Dottore torna a casa e si mette volontariamente in stato di arresto domiciliare. Riceve, in sogno, presso la sua abitazione, una spedizione di probiviri: le alte cariche della polizia, coadiuvate da medi burocrati, sono chiamate ad emettere un verdetto sull’agognato castigo.

In un grottesco interrogatorio capovolto, il supremo consesso smonta ogni dichiarazione autoaccusatoria resa dal protagonista, confuta gli indizi a suo carico, mira a dimostrarne la completa estraneità ai fatti. Il Dottore, sempre più in preda alle convulsioni del dramma etico che sta vivendo, viene malmenato – con metodi analoghi a quelli riservati ai sospettati nei meandri della Questura – dai dozzinali inquisitori, persino da Panunzio, per provocarne un’abiura di galileiana memoria. E così l’assassino, dopo aver estratto il pettine che restituisce alla sua chioma la proverbiale impeccabilità, si rassegna alla mancata espiazione e dichiara la propria innocenza ai cerberi della legge. Il Dottore si risveglia al cospetto della trasposizione reale del suo recente onirismo, e si mette incondizionatamente nelle mani dei fabbri della giustizia. I titoli di coda incombono, lasciando aperta ogni soluzione circa la sorte del protagonista e di tutti i dilemmi che la sua storia porta con sé. Non è dato sapere il responso del convivio nell’impenetrabile stanza della legge. Mezzo secolo e non sentirlo. Elio Petri irrompe in un Bel Paese che transita dalle battaglie sessantottine al principio degli Anni di Piombo con tutta l’irriverenza di un cineasta politicamente schierato, ma dal pensiero anticonformista rispetto alle imposizioni ideologiche di ogni partito. Le riprese della pellicola avvengono in parallelo con il primo, drammatico, episodio della strategia della tensione che insanguina la Repubblica: l’esplosione dell’ordigno che mutila la Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, in Piazza Fontana, il 12 dicembre del 1969. Le indagini sommarie intavolate contro alcuni gruppi anarchici, l’interrogatorio dalla dubbia legalità cui viene sottoposto Giuseppe Pinelli, la successiva morte di quest’ultimo che lascia molti interrogativi tutt’ora irrisolti, sembrano compenetrare strettamente parte della finzione e della realtà. Le forze parlamentari, da destra a sinistra, puntano il dito contro i contenuti della pellicola, rinvenendo – tra le altre cose - un oltraggioso parallelismo tra la figura del Dottore e quella del commissario Luigi Calabresi, capo dell’Ufficio Politico della Questura di Milano, esposto mediaticamente negli interventi sedativi contro i moti del periodo, e individuato dalle forze extraparlamentari come il responsabile della morte di Pinelli (sebbene sia stato, anni dopo, riconosciuto come totalmente estraneo all’accaduto e interamente riabilitato). In realtà, i tempi di realizzazione del film suggeriscono che l’odiosa caratterizzazione del Dottore non sia un calibrato atto di accusa contro Luigi Calabresi, bensì una denuncia contro i metodi repressivi spicci talvolta utilizzati, nel decennio, contro le manifestazioni studentesche, le rivendicazioni della classe operaia, ogni singulto di lotta di classe. La vera vis rivoluzionaria del film risiede proprio nella feroce satira diretta agli organi di polizia nostrani, ovvero ad un’istituzione ritenuta fino a questo momento sacra, inattaccabile, nel Bel Paese, come un rigoglioso frutteto ove non può albergare alcuna mela marcia. Il cineasta fotografa gli agenti della forza pubblica come un retaggio reazionario del ventennio totalitario, dissimulato dalle ingannevoli sembianze della tutela della Repubblica democratica a colpi di manganello. Oltre la maschera del perbenismo di Stato un concentrato di miseria umana, corruzione, violenza. E quell’inadeguatezza fisica (palesata in ambito sessuale) e morale che conduce l’uomo a trincerarsi dietro la fondina (non può sfuggire, in questo senso, qualche analogia con “Il Conformista”, coeva opera bertolucciana). Politicamente tagliente, come nessuno negli ambienti intellettuali dell’epoca, nell’additare i funzionari di polizia come servi dei padroni, inetti di fronte alle rivendicazioni sociali che essi stessi dovrebbero avvertire, Elio Petri – insieme al fido sceneggiatore Ugo Pirro – è cosciente del rischio di subire un processo per vilipendio ed il contestuale sequestro della pellicola. Le sale dei cinema di ogni parte d’Italia, straordinariamente gremite per le prime proiezioni dell’opera, verosimilmente impediscono le perniciose conseguenze penali. La censura non sarebbe un atto popolare. Proprio come Mangani, apostrofato pesantemente dal Dottore quando decide di lasciare il marito di Augusta Terzi in prigione, malgrado le lampanti prove di innocenza, i burocrati della stigmatizzazione sembrano denotare una certa paura dell’opinione pubblica. A dispetto del mezzo secolo trascorso dal debutto ufficiale, e delle conquiste di democrazia e garantismo raggiunte nei decenni a seguire, la pellicola conserva una spiccata attualità come affresco politico-sociale. La facciata del palazzo di Via del Tempio 1 mostra, alle due estremità laterali, le rappresentazioni della giustizia e della scienza. Due virtù che, nel migliore dei mondi possibili, camminerebbero perennemente a braccetto, con i detentori del sapere che utilizzerebbero il proprio bagaglio per riconoscere a ciascuno ciò che gli spetta. Ma che spesso non riescono ad incontrarsi, rimangono agli antipodi, allontanate dalle magagne della natura umana, dai vizi che inducono anche i savi (o presunti tali) a sfruttare il proprio privilegio a vantaggio personale, o a svendere se stessi al servizio di un’ideale deleterio, cagionando storture ed iniquità. Quale migliore raffigurazione per raccontare alcune pagine buie della Repubblica, taluni misteri irrisolti che aleggiano con l’ombra spettrale di servizi segreti deviati, di regie sinistre della massoneria, di connivenze con organizzazioni criminali? Il paradosso del custode della legge cammina per le strade dell’Italia contemporanea, riecheggia tra le pareti della scuola Diaz, tuona nelle grida di dolore lasciate ai posteri da Federico Aldrovandi e da Stefano Cucchi, lancia un ghigno amaro in mezzo ad ogni episodio di abuso in uniforme. Supera i confini nostrani, naviga oltre il Mar Mediterraneo, là dove, in qualche sotterraneo simile a quelli immortalati da “Indagine”, si respira ancora il tanfo della tortura senza volto che ha spezzato la giovane vita del compianto Giulio Regeni. Si spinge oltreoceano, nella terra dei cowboys, animato da chi ha il vizio di premere con noncuranza il grilletto per risolvere le divisioni interne che culminano negli scontri con gli afroamericani. E ci ricorda, assillante, come un demiurgo infernale, le ferite che ogni deriva autoritaria porta con sé, ed i rischi che corre un popolo in un momento in cui è particolarmente propenso a barattare l’essenza della propria libertà con una sensazione di sicurezza. Elio Petri dà voce alle istanze dal sottosuolo e sfida le alte sfere della democrazia con un manifesto barocco, colto e raffinatissimo nella sua immensa stratificazione. Un manifesto predestinato al rogo, dove dovrebbe ardere impetuosamente accompagnato dagli innumerevoli e sofisticati richiami all’arte e alla letteratura (da Kafka a Simenon, passando per Brecht), e dall’indimenticabile colonna sonora targata Ennio Morricone, uno dei punti più elevati dello sterminato repertorio del maestro. Invece si salva miracolosamente dalle fiamme e vince il Premio Oscar per il miglior film in lingua straniera nel 1971. Forse una resa incondizionata del politicamente corretto al genio dello scomodo Elio Petri. Gli amanti del cinema ringraziano.

Alessio Fugazzotto

Video

Inizio pagina